IL PRETORE
   Alla pubblica udienza del 9 ottobre 1997 ha pronunciato la seguente
 ordinanza nei procedimenti penali riuniti a carico di Massimo Cassan,
 imputato:
     del  delitto  di oltraggio a pubblico ufficiale p. e p. dall'art.
 341 c.p. perche' offendeva l'onore  e  il  prestigio  dell'agente  di
 polizia  penitenziaria  Cali'  Paolo,  in  sua  presenza  e a causa e
 nell'esercizio  delle  sue  funzioni,  rivolgendogli  la  frase  "Non
 rompermi   i  coglioni  se  no  finisci  male  e  vedi  di  andartene
 immediatamente". In Tolmezzo il 29 luglio 1994 (proc. n. 510/1995).
     del delitto p. e p. dall'art. 341 c.p. per aver offeso l'onore  e
 il  prestigio  di  Cucchiolo  Francesco,  pubblico  ufficiale  in sua
 presenza a causa e  nell'esercizio  delle  sue  funzioni  dicendogli:
 "che  cazzo  rompi  i  coglioni  di  prima  mattina con quei cazzo di
 ferri".    In  Tolmezzo  il  12  marzo  1995  (proc.  n.   130/1996).
 Svolgimento del processo
   Con decreti di citazione emessi dal procuratore della Repubblica di
 Tolmezzo il 22 marzo e il 23 giugno 1995, Massimo Cassan era tratto a
 giudizio  di  questo  pretore  per  rispondere  dei  reati in rubrica
 indicati.
   Alle udienze del 15 e 31 ottobre 1996, 6 marzo e  29  maggio  1997,
 svoltesi  in  contumacia  dell'imputato,  riuniti  i due procedimenti
 penali a norma dell'art. 17 c.p.p., e' stata  esperita  l'istruttoria
 dibattimentale  mediante  l'esame  dei  testi  Paolo  Cali',  Carmine
 Risoleo, Luciano Padovano, Francesco Cucchiolo e  Vanni  Clemente,  i
 quali  tutti  confermavano  i  fatti  addebitati.  Poiche'  la difesa
 contestava la capacita' di intendere e  di  volere  dell'imputato  al
 momento  dei  fatti,  producendo copiosa documentazione medica, copia
 della sentenza del pretore di Venezia d.d.  22  maggio  1996  con  la
 quale  l'imputato,  per  fatti  analoghi  commessi  nel  1992, veniva
 prosciolto per difetto di imputabilita', nonche' perizia psichiatrica
 nella quale la totale infermita' di mente dell'imputato, in relazione
 a quel procedimento, era argomentata da  un  senso  di  angoscia  per
 morte  imminente  derivante  da  una grava patologia cardiaca, questo
 pretore disponeva perizia psichiatrica ed il perito, all'esito  degli
 accertamenti   svolti,  pur  evidenziando  "un  disturbo  ansioso  in
 soggetto con note caratteriali",  escludeva  qualsiasi  influenza  al
 momento dei fatti sulla piena capacita' di intendere e di volere.
   All'udienza  del  9  ottobre  1997,  fissata per la discussione, la
 difesa sollevava questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 341  c.p.  in  relazione  agli artt. 3 e 27, comma terzo  e 97, comma
 primo, Cost., nella parte in cui non prevede, neppure per i  casi  di
 minore  rilevanza,  la  procedibilita'  a  querela di parte e la pena
 pecuniaria in alternativa alla pena detentiva. Il p.m.  chiedeva  che
 la  questione,  ritenuta  non  manifestamente  infondata e rilevante,
 fosse rimessa alla decisione  della  Corte  costituzionale  e  questo
 pretore pronunciava la presente ordinanza.  Motivi della decisione
   1.  -  Questo  pretore  e' ben consapevole che l'art. 341 c.p., sin
 dagli anni '60, e' stato oggetto di cio' che efficacemente  e'  stato
 chiamato  un  "attacco  in massa" da parte dei giudici di merito, che
 hanno sollevato la questione di legittimita' costituzionale  sotto  i
 piu'  disparati  profili, in gran parte coincidenti con quelli che si
 andranno di seguito ad evidenziare; e che  la  Corte  costituzionale,
 sin  dal  primo  precedente,  risalente ormai a quasi 30 anni or sono
 (sentenza 2-19 luglio 1968 n. 109), ha sempre respinto la  questione,
 sino all'importante sentenza 25 luglio 1994 n. 341 che, come e' noto,
 ha  dichiarato  l'incostituzionalita',  con riferimento agli art. 3 e
 27, terzo comma, della Costituzione, dell'art. 341,  comma  1,  c.p.,
 nella  parte  in  cui  prevede  la  pena di mesi 6 di reclusione come
 minimo edittale, che pertanto e' ora  determinato  in  15  giorni  di
 reclusione, ai sensi dell'art. 23 c.p.
   Tuttavia  si  deve  ritenere  non  inutile  sollevare nuovamente la
 questione, non solo con riferimento agli artt. 3,   primo comma,  27,
 terzo  comma  e  97,  primo comma, della Costituzione, indicati dalla
 difesa, ma anche in riferimento  agli  artt.  1,  secondo  comma,  3,
 secondo  comma,  25,  secondo comma, 28 e 54 della Costituzione ed in
 ordine non solo agli aspetti di disciplina denunziati (procedibilita'
 e pena), ma anche, e soprattutto, alla sussistenza stessa del  reato,
 cosi'  come  e'  attualmente  strutturato  dalla norma incriminatrice
 sospetta e costantemente applicato dalla giurisprudenza. Cio' al fine
 di consentire alla Corte di valutare  la  questione  col  piu'  ampio
 spettro  d'azione  possibile,  superando le strettoie che in passato,
 specie nel 1994, possono averne condizionato il giudizio.
   D'altra parte sembra  a  questo  pretore  non  manchino  importanti
 elementi  di novita', sia sul versante delle norme costituzionali, in
 parte gia' evidenziati dalla sentenza n. 314/1994, sia  sul  versante
 della  norma  ordinaria  sospetta,  essendo forse necessaria una piu'
 accurata analisi del reato di oltraggio a pubblico  ufficiale,  sotto
 il  profilo  strutturale,  del  bene giuridico protetto e dello scopo
 della tutela, al fine di verificarne la compatibilita' con  l'attuale
 ordinamento costituzionale.
   Dal  primo  punto  di vista viene in considerazione la correlazione
 sistematica tra alcuni principi costituzionali fondamentali, principi
 dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti tra Stato e
 cittadino nonche' alla forma democratica di Stato, oltre al fatto che
 nella  giurisprudenza  costituzionale  e'  in   corso   un'importante
 rivalutazione  dei  vincoli imposti al legislatore in materia penale.
 Ci si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della pena
 di cui all'art. 27, terzo comma,  della  Costituzione,  riferita  non
 piu',  come  in  passato,  alla  sola fase esecutiva, ma ritenuta una
 delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la  pena  nel
 suo   contenuto   ontologico,   e  l'accompagnano  da  quando  nasce,
 nell'astratta previsione normativa, fino  a  quando  in  concreto  si
 estingue,   (cfr.     la  stessa  sentenza  n.  341/1994  e,  per  un
 significativo precedente, la sentenza 18 luglio 1989 n. 409)  con  il
 conseguente riconoscimento del principio c.d. di proporzione tra pena
 e  offesa, non solo sul piano politico - criminale ma anche su quello
 costituzionale e, pertanto, vincolante per  il  legislatore.  Attiene
 inoltre alla recente valorizzazione della riserva di legge in materia
 penale  di  cui  all'art.  25, secondo comma, della Costituzione, con
 riferimento al principio di determinatezza (cfr. sentenze 6  febbraio
 1995, n. 34 e 17 ottobre-2-novembre 1996 n. 370) e, piu' in generale,
 dei  principi di offensivita', di frammentarieta' e di sussidiarieta'
 (cfr. sentenze 23-25 ottobre 1989 n. 487 e 10-11 luglio 1991 n. 333).
   Dal secondo punto di vista si  potranno  utilizzare  non  solo  gli
 spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie e
 nuove, della dottrina, nel cui ambito il dibattito sulla legittimita'
 della  sussistenza  stessa  della  fattispecie,  prima  ancora  della
 relativa  disciplina  sanzionatoria,   e'   piu'   che   mai   aperto
 all'indomani della sentenza n. 341/1994.
   2.  -  Gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p.,
 sul piano oggettivo, sono: 1) l'offesa,  resa  con  qualsiasi  mezzo,
 all'onore  o  al  prestigio  del  soggetto  passivo;  2) lo status di
 pubblico ufficiale del soggetto passivo; 3) la presenza del  soggetto
 passivo (salvi i casi di c.d. presenza "mediata" di cui all'art. 341,
 comma   2,   c.p.,  che  tuttavia  non  vengono  in  questa  sede  in
 considerazione); 4) il legame tra l'offesa e  le  pubbliche  funzioni
 che  si  risolve,  in  via  alternativa,  o in un nesso di causalita'
 psicologica (a causa delle funzioni), nel  senso  che  l'offesa  deve
 essere  rivolta  propter  officium  ossia  a  motivo  delle  funzioni
 esplicate dal pubblico ufficiale e, in  tal  caso,  il  reato  potra'
 essere  integrato anche se il soggetto passivo, al momento del fatto,
 non rivesta piu' la qualita' di pubblico ufficiale a norma  dell'art.
 360  c.p.  (Cass.  2  ottobre  1985  n.  8454),  oppure  in  un nesso
 cronologico di contestualita' (nell'esercizio  delle  funzioni),  nel
 senso  che  l'offesa deve essere arrecata, anche per motivi puramente
 personali,  ma  nel  momento  in  cui  il  pubblico  ufficiale   sta'
 esercitando le proprie funzioni.
   Per  onore s'intende l'insieme delle qualita' morali della persona,
 quale bene strettamente personale, componente  essenziale  di  quella
 dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 della Costituzione e, in
 quanto  tale,  annoverabile  nei diritti inviolabili dell'uomo di cui
 all'art. 2 della Costituzione, mentre il prestigio viene inteso  come
 quella  particolare  forma  di decoro determinata dalla posizione del
 soggetto passivo, e attinente alla dignita' e al rispetto da  cui  la
 pubblica  funzione  deve  essere circondata (cfr., in particolare, la
 relazione al codice penale, 140). L'offesa a tali beni va  apprezzata
 in   relazione   a   parametri  socio-culturali  di  valutazione  che
 consentono  di  ritenere  come  oltraggiosa  oppure  no  quella  data
 espressione  o  quel  dato gesto in rapporto con tutte le circostanze
 del caso concreto.   Il particolare  status  che  deve  rivestire  il
 soggetto  passivo e' definito dall'art. 357 c.p., mentre il requisito
 della presenza viene generalmente inteso nel senso  che  la  condotta
 incriminata  deve  essere compiuta in una situazione spaziale tale da
 rendere  semplicemente  possibile  la   percezione   dell'offesa   al
 destinatario   della   medesima.   Infine  il  requisito  individuato
 dall'espressione a causa o nell'esercizio  delle  sue  funzioni,  che
 nella struttura del reato dovrebbe svolgere la funzione di ricondurre
 la   fattispecie   nell'ambito   dei   reati   contro   la   pubblica
 amministrazione, si risolve, nel primo caso, in una caratterizzazione
 eminentemente soggettiva della condotta, essendo in sostanza  elevato
 un semplice movente ad elemento di tipicita', e, nel secondo caso, in
 una  modalita' spazio - temporale dell'azione e dunque in un elemento
 intrinsecamente oggettivo.
   Poiche', come si e'  visto,  il  prestigio  viene  considerato  una
 particolare  forma  di  decoro  collegata  allo  status soggettivo di
 pubblico ufficiale, si deve ritenere che la condotta  tipica  sia  la
 medesima rispetto a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.). Gli
 elementi  differenziali,  in  funzione  specializzante,  tra  le  due
 fattispecie, si esauriscono  nello  status  del  soggetto  passivo  e
 nell'elemento  espresso con la formula a causa o nell'esercizio delle
 sue funzioni. Sennonche' se a base del confronto  si  assume  non  il
 reato  di ingiuria nella forma semplice ma il reato di ingiuria nella
 forma aggravata ai sensi dell'art.   61 n. 10  c.p.,  non  si  potra'
 negare  una  perfetta  identita' di struttura tra le due fattispecie,
 una volta ammessa, secondo l'opinione comune  sia  in  dottrina  che,
 ormai,  in giurisprudenza,  l'identita' tra la formula nell'esercizio
 delle  funzioni,  utilizzata  dall'art.  341  c.c.,  e   la   formula
 nell'atto... nell'adempimento delle funzioni di cui all'art. 61 n. 10
 c.p.   Infatti  nel  momento  in  cui  la  giurisprudenza  e'  venuta
 giustamente a respingere l'opinione secondo la  quale  devono  essere
 sempre   considerati   nell'esercizio  delle  proprie  funzioni  quei
 pubblici ufficiali che, essendo  investiti  di  compiti  di  pubblica
 sicurezza  o di polizia giudiziaria, sono in servizio permanente, per
 accogliere l'opposta opinione secondo la  quale  servizio  permanente
 non  equivale  ad effettivo esercizio della funzione, sicche' finche'
 il pubblico ufficiale in concreto non svolga la propria funzione  non
 puo' ritenersi integrato il reato di cui all'art. 341 c.p. (Cass.  21
 marzo  1997  n. 2727 e Cass. 19 febbraio 1996 n. 5027), viene meno la
 possibilita' stessa di tracciare  una  differenziazione  tra  le  due
 formule.
   Cio'  non  toglie  che  tra  le  due  fattispecie vi siano profonde
 differenze  di  disciplina,  non  solo   in   ordine      all'aspetto
 sanzionatorio  (l'ingiuria  e' punibile con la pena fino a un anno di
 reclusione o della multa fino a lire due milioni, aumentata  sino  ad
 un  terzo  per  l'effetto  dell'aggravante, effetto che peraltro puo'
 essere posto nel nulla in ragione del giudizio di  bilanciamento  con
 le  circostanze  attenuanti;  l'oltraggio  e' punito con la sola pena
 della reclusione sino a 2 anni), ma anche con riferimento all'aspetto
 processuale della procedibilita' (a querela di parte per l'ingiuria e
 d'ufficio per l'oltraggio) e dell'estensione delle condotte punibili,
 sotto il profilo delle cause di  giustificazione  e/o  di  esclusione
 della punibilita', essendo per costante giurisprudenza, inapplicabili
 all'oltraggio,  neppure  in via analogica, la c.d. exceptio veritatis
 (art. 596 c.p.) e gli istituti della provocazione e della  ritorsione
 (art.  599  c.p.), sebbene la funzione della provocazione sia svolta,
 in  riferimento  all'oltraggio,  dalla  scriminante  della   reazione
 legittima  agli  atti  arbitrari del pubblico ufficiale (art. 4 d.lvo
 lgt. 14 settembre  1944  n.  288),  che  tuttavia  ha  un  ambito  di
 operativita'   assai   piu'  circoscritto.    Ed  e'  proprio  questa
 differenza cosi' marcata di disciplina,  in  mancanza  di  differenze
 strutturali,  a  destare  seri  dubbi  di legittimita' costituzionale
 soprattutto in riferimento agli artt. 3  e  27,  terzo  comma,  della
 Costituzione,   sebbene   la  relativa  questione  non  possa  essere
 affrontata   compiutamente   se   non   dopo   un    attento    esame
 dell'obiettivita' giuridica e della ratio del reato.
   Per  il  momento  e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed
 estensione della  fattispecie  cosi'  come  strutturata  dalla  norma
 incriminatrice,  che  la  rende  capace  di  abbracciare un numero di
 condotte veramente considerevole.  Cio'  e'  dovuto  in  primo  luogo
 all'estrema ampiezza della formula linguistica utilizzata dalla norma
 incriminatrice,  diretta conseguenza del fatto che il legislatore del
 1930 si e' dichiaratamente prefissato  di  rendere  in  materia  piu'
 completa e rigorosa la tutela giuridica degli organi e dell'attivita'
 dei  pubblici  poteri  (Relazione,  141),  ma non vanno sottovalutati
 anche gli effetti di fattori  esterni  alla  norma  medesima.  Ci  si
 riferisce  anzitutto  al crescere della presenza dello Stato nei piu'
 disparati settori e al conseguente riconoscimento della  qualita'  di
 pubblico  ufficiali  a  categorie  sempre  piu'  vaste e variegate di
 soggetti (peraltro  una  tutela  analoga  e'  accordata  ai  semplici
 pubblici  dipendenti  che  prestino  un  pubblico  servizio  a  norma
 dell'art. 344 c.p.). In secondo  luogo  viene  in  considerazione  un
 costante  indirizzo  giurisprudenziale, rilevante ai fini considerati
 in questa sede sul piano del c.d. diritto  vivente,  che,  noncurante
 delle penetranti e per molti versi condivisibili critiche mosse dalla
 dottrina,   limita   oltre  misura  l'ambito  di  applicazione  della
 scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico
 ufficiale (art.  4  cit.),  escludendo,  da  un  lato,  la  rilevanza
 dell'arbitrarieta'  putativa (Cass. 13 dicembre 1996, n. 10747; Cass.
 21 marzo 1990, n. 4035; Cass. 29 novembre 1989, n.  16691;  Cass.  11
 febbraio  1989,  n.  2031;  Cass.  11  marzo  1985, n. 2307; Cass. 24
 novembre 1984, n.    10586;  Cass.  16  febbraio  1984,  n.  1482)  e
 richiedendo,  dall'altro,  in  aggiunta  alla semplice illegittimita'
 dell'operato del p.u., un particolare atteggiamento  psicologico  del
 medesimo,  molto  vicino  in  sostanza al dolo intenzionale (Cass. 22
 dicembre 1989, n. 17767; Cass. 27 gennaio  1987,  n.  788;  Cass.  12
 maggio  1986, n. 3586; Cass.  27 maggio 1986, n. 4314; Cass. 11 marzo
 1985, n. 2285; Cass. 9  ottobre  1985,  n.  9951).  Viene  infine  in
 considerazione l'altrettanto costante indirizzo giurisprudenziale che
 esclude  l'applicabilita',  anche  in via analogica (in bonam partem)
 dell'art. 596 c.p. al reato di oltraggio (Cass. 5 novembre  1980,  n.
 11458;  Cass.  30 settembre 1975, n. 8944; Cass. 13 novembre 1972, n.
 7586). Ora, e' evidente che  restringere  il  campo  di  applicazione
 delle  scriminanti  o  delle esimenti latu sensu intese, comporta una
 correlativa estensione  del  campo  di  applicazione  delle  condotte
 punite.
   Cio'  che  tuttavia  interessa sottolineare e' che l'ampiezza della
 fattispecie rischia di entrare in conflitto con  l'art.  25,  secondo
 comma,   della  Costituzione  sotto  il  profilo  della  mancanza  di
 sufficiente  determinatezza.  Anche  in  tal  caso  tuttavia  risulta
 imprescindibile,   al   fine   del   giudizio   sulla  non  manifesta
 infondatezza del dubbio di  legittimita'  costituzionale,  affrontare
 con  cura  il  tema  del bene giuridico protetto e della finalita' di
 tutela,  perche'  il  deficit   di   determinatezza   per   eccessiva
 onnicomprensivita'  della  realta'  rappresentata (cosi' la circolare
 della    Presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri 5 febbraio 1986 in
 Gazzetta  Ufficiale  18  marzo  1986  n.   64,   18),   attiene   non
 semplicemente al dato, in se' neutro, dell'eccessiva estensione della
 fattispecie in quanto tale, ma piuttosto della selezione, in un'unica
 fattispecie,  di  condotte  tra  loro  diverse ed eterogenee quanto a
 disvalore.
   3.  -  Venendo  pertanto  all'individuazione  del  bene   giuridico
 protetto,  si puo' in prima battuta affermare con certezza che l'art.
 341 c.p.  tutela anche il bene personale dell'onore e  del  prestigio
 del  p.u.,  come  persona  fisica, che in nulla si distingue dal bene
 dell'onore  e  del  decoro  tutelato  dall'art.  594  c.p.  Cio'   e'
 confermato  e  provato  dall'identita'  strutturale  tra  il reato di
 oltraggio ed il reato di ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61  n.
 10 c.p.
   Sennonche' costituisce opinione comune che l'art. 341 c.p. protegga
 un   ulteriore   bene   giuridico,   a   piu'   marcata  connotazione
 pubblicistica, che viene generalmente individuato nel prestigio  (non
 del  p.u.  come  persona fisica ma) della pubblica amministrazione e,
 talvolta,   addirittura   nel   principio    del    buon    andamento
 dell'amministrazione  di  cui all'art.   97 della Costituzione, cosi'
 venendo a caratterizzarsi come tipico reato plurioffensivo. La stessa
 Corte  costituzionale  ha,  fin  dal  primo  precedente,  aderito   a
 quest'impostazione,  riferendosi tuttavia talvolta al prestigio della
 puramente e semplicemente (sentenza n.  109/1968), talaltra ancora al
 prestigio della p.a. ma in ragione della finalita' del buon andamento
 amministrativo   prevista   dall'art.      97   della   Costituzione,
 coinvolgente  non  solo  la  fase  organizzativa iniziale ma anche il
 complessivo funzionamento  (sentenza  2-14  aprile  1980,  n.  51  e,
 sostanzialmente,  ordinanza  10-17  marzo 1988, n. 323).   Persino la
 sentenza di accoglimento n. 341/1994  sottolinea,  in  via  generale,
 questo  aspetto  osservando  come  la  plurioffensivita' del reato di
 oltraggio rende certamente ragionevole un  trattamento  sanzionatorio
 piu'  grave  di  quello  riservato  all'ingiuria,  in  relazione alla
 protezione di un interesse che supera quello della persona  fisica  e
 investe  il  prestigio  e  quindi  il  buon  andamento della pubblica
 amministrazione.
   Affermazioni in tutto analoghe si  rinvengono  in  dottrina  ed  in
 giurisprudenza, ove spesso compaiono locuzioni ancora piu' generiche,
 quali  il  "regolare"  o "sereno" esercizio delle pubbliche funzioni.
 Si deve tuttavia osservare che si tratta normalmente di  affermazioni
 apodittiche,  assunte  quali postulati e come tali non bisognevoli di
 argomentazione o dimostrazione e, in particolare, senza  che  vi  sia
 mai,  o  quasi,  alcun  approfondimento  ne'  in  relazione alla piu'
 specifica determinazione del bene protetto,  atteso  che  gli  stessi
 beni del "prestigio" o del "buon andamento" della p.a. possono essere
 intesi  in modo assai vario, ne' in relazione al tipo di raccordo tra
 il bene che si assume protetto e la tecnica di  strutturazione  della
 fattispecie.  Ma,  come  e'  noto,  la  valutazione della rilevanza e
 pregnanza dell'offesa insita nel  reato  comporta  la  necessita'  di
 considerare  non solo e semplicemente il rango del bene giuridico che
 si assume offeso ma anche il grado di  offesa  (che  decresce  quanto
 piu'   ci  si  allontani  dallo  stadio  dell'effettiva  lesione  per
 avvicinarsi allo stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia
 delle forme di aggressione indicate dalla  norma  incriminatrice.  Al
 riguardo si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341 c.p., si
 sia  verificato un singolare, ma per certi versi assai significativo,
 fenomeno di commistione e/o di confusione,  tra  il  piano  del  bene
 giuridico   protetto  ed  il  piano,  che  dovrebbe  invece  rimanere
 rigorosamente distinto, della ratio o scopo politico-criminale  della
 norma.  Va  allora  ribadito  che  puo'  essere individuato come bene
 giuridico protetto  solo  quello  immancabilmente  offeso  dal  fatto
 tipico     selezionato     o,     comunque,     quello     desumibile
 dall'interpretazione  dei  singoli  elementi  del  reato   nei   loro
 reciproci rapporti. Il problema di fondo non muta neppure accogliendo
 la   c.d   concezione   realistica   del   reato,   che  partendo  da
 un'interpretazione "forte" del  reato  impossibile  (per  inidoneita'
 dell'azione)   di   cui   all'art.   49,   comma  2  c.p.,  individua
 nell'elemento dell'offesa un elemento,  esterno  alla  tipicita',  ed
 autonomamente   rilevante   gia'   sul   piano   oggettivo,  ai  fini
 dell'integrazione  del  reato.   Infatti   anche   quest'impostazione
 presuppone  che  il  bene giuridico sia individuato non sulla base di
 vaghe  considerazioni  di  ordine  generale,  bensi'  dalla  rigorosa
 interpretazione della singola norma incriminatrice. Cio' del resto e'
 confermato  dall'osservazione  che il concetto di bene giuridico puo'
 svolgere  la  funzione  che  gli  e'  propria,  in  riferimento  alla
 struttura dell'illecito penale, solo alla duplice condizione che esso
 sia  sufficientemente "afferrabile" e determinato, anche in relazione
 al principio di determinatezza di cui  all'art.  25,  comma  2  della
 Costituzione,  e che vengano individuati come i veri interessi offesi
 solo quelli che realmente possono essere  raggiunti  dalla  capacita'
 offensiva  della condotta, con la conseguenza che nel caso si addotti
 una tecnica c.d. di "seriazione di beni giuridici", tali non  possono
 essere  considerati i c.d. "beni ultimi", ossia irraggiungibili dalla
 condotta criminosa, come ad esempio, i beni ad "ampio spettro".
   Diverso e' invece il concetto  di  scopo  o  fine  che,  sul  piano
 politico criminale, ci si propone di perseguire con l'incriminazione,
 trattandosi  di  un  elemento esterno alla norma, desumibile anche da
 considerazioni di ordine generale, spesso condizionate da contingenze
 sociali, economiche, culturali e storiche. Si tratta di  un  concetto
 certamente  molto  importante, anche sul piano interpretativo, ma che
 non implica una cosi' stretta necessita' di rinvenire in ogni singola
 condotta punita il fine perseguito sul piano generale.
   4. - Al fine di verificare criticamente la  fondatezza  della  tesi
 della  plurioffensivita'  del  reato di oltraggio a p.u. puo' tornare
 utile una breve analisi storica della norma, giacche'  e'  innegabile
 una  connotazione  fortemente storicizzata della fattispecie in esame
 (cfr. sentenza 28 giugno-12 luglio 1995, n. 313).  In  proposito  fin
 dal  principio  la Corte costituzionale, nelle molteplici pronunce di
 rigetto o di manifesta infondatezza, non ha pur tuttavia  mancato  di
 rimarcare  come  la disciplina legislativa dell'oltraggio, cosi' come
 delineata dal codice Rocco troppo risente dell'ideologia  del  regime
 dal quale ebbe origine, e di ammettere che rimane sicuramente, specie
 in  talune  ipotesi  di fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione
 comminata  e  disvalore  del  fatto,   espressamente   invitando   il
 legislatore a adeguare il minimo edittale e lo stesso disvalore della
 fattispecie,   alla   mutata   coscienza   sociale  ed  allo  spirito
 informatore della Costituzione (cfr., tra le  tante,  ordinanze  6-16
 marzo  1989,  n.  127  e 10-17 marzo 1988, n. 323). Nella sentenza di
 accoglimento  n.  341/1994,  poi, oltre a precisare che la concezione
 autoritaria  e  sacrale  dei  rapporti  tra  pubblici   ufficiali   e
 cittadini,  tipica  del  regime totalitario di cui l'art. 341 c.p. e'
 espressione, e' estranea alla coscienza democratica instaurata  dalla
 Costituzione   repubblicana,   per   la   quale   il   rapporto   tra
 amministrazione e societa' non e'  un  rapporto  di  imperio,  ma  un
 rapporto  strumentale  alla  cura degli interessi di quest'ultima, la
 Corte  si  spinge  sino  al  punto  di  ritenere  che  l'inerzia  del
 legislatore abbia superato ogni limite di ragionevole tollerabilita'.
 Non  abbisogna  pertanto  di  ulteriori dimostrazioni il fatto che il
 reato di oltraggio fosse inteso dal legislatore  del  1930  come  una
 salvaguardia  dell'autorita'  statale  in  quanto  tale,  finendo per
 rappresentare una super-tutela accordata da uno Stato  autoritario  a
 se'  stesso  e  riallacciandosi  alle  concezioni proprie degli Stati
 teocratici ed assolutistici, alla concezione  della  sovranita'  come
 sacra  ed  inviolabile  nella  sua  diretta  emanazione  divina,  dei
 funzionari come diretta emanazione  del  sovrano,  dei  singoli  come
 sudditi  e  non  come cittadini.   Del resto cio' e' sufficientemente
 testimoniato dal raffronto con la disciplina della materia  contenuta
 nel  codice  Zanardelli  del  1889 (artt. 194-199). Infatti il codice
 Rocco  non  si  e'  limitato  ad  una   modifica   della   disciplina
 sanzionatoria, peraltro assai vistosa (il codice Zanardelli puniva il
 reato  base  con la pena della reclusione o della multa), ma ha anche
 modificato strutturalmente la fattispecie estendendone  il  campo  di
 applicazione,   mediante:   l'eliminazione  della  scriminante  della
 reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (subito
 reintrodotta all'indomani della caduta  del  regime);  l'unificazione
 delle  ipotesi  di  offesa arrecata a causa delle funzioni con quelle
 arrecate nell'esercizio delle  funzioni  (che  il  codice  Zanardelli
 puniva  in  modo  attenuato  rispetto all'altra); l'eliminazione, per
 quest'ultima modalita' d'offesa, del termine pubblico  (l'art.    196
 del codice Zanardelli prevedeva che l'offesa fosse arrecata nell'atto
 dell'esercizio  pubblico  delle  funzioni); l'estensione della tutela
 anche  ai  semplici  pubblici  impiegati  che  prestino  un  pubblico
 servizio  (art.  344  c.p.).  Oltre a cio' va pure considerato che, a
 causa della minore ingerenza dello Stato nella societa', tipica degli
 ordinamenti di impronta "liberale" dell'ottocento,  la  qualifica  di
 pubblico ufficiale, ai tempi del codice Zanardelli, era riferibile ad
 una cerchia di persone infinitamente piu' ristretta.
   D'altra  parte  va subito precisato che non si potrebbe utilizzare,
 per argomentare la legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p.  la
 previsione di un'analoga fattispecie nel codice "liberale" del 1889 a
 causa della differenza di  fondo  tra  l'attuale  Costituzione  e  lo
 statuto  Albertino.  Infatti  se lo statuto Albertino puo' ben essere
 considerato, nel contesto storico di riferimento, una  conquista  per
 le  garanzie  e  le liberta' individuali di ascendenza illuministica,
 non si puo' tuttavia neppure dimenticare: che si trattava comunque di
 una costituzione elargita, o come si diceva  allora  "ottriata",  dal
 sovrano  ai  sudditi,  che  la  persona  del re era definita "sacra e
 inviolabile" (art. 4), che i diritti di liberta' erano  garantiti  in
 modo alquanto imperfetto e parziale (artt. 24-32), che in particolare
 non  erano  riconosciuti  i  "diritti  sociali",  ossia  pretese  dei
 cittadini di ricevere dallo Stato  particolari  prestazioni;  che  il
 principio  democratico  era  assai  lontano  dall'essere riconosciuto
 nella  sua  compiutezza  (le  prime  votazioni a suffragio elettorale
 universale si hanno solo il  2  giugno  1946  e  quelle  a  suffragio
 elettorale  maschile  generalizzato  nel  1919  e  1921)  e  che,  in
 definitiva e per cio' che piu' interessa in questa sede,  i  rapporti
 tra Stato e cittadino erano in sostanza gia' allora improntati a quel
 principio di autorita' e dovere di obbedienza, che il regime fascista
 si limito' ad accentuare e portare sino alle sue estreme conseguenze.
 Peraltro  una  piu'  attenta ricostruzione della volonta' storica del
 legislatore fascista evidenzia come il bene oggetto di  tutela  fosse
 puramente  e  semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo p.u.,
 mentre il principio di autorita' fosse piuttosto  riferito  al  piano
 della  ratio o scopo politico-criminale della tutela che, nell'ambito
 dell'ideologia  del  regime,  consentiva   di   ritenere   largamente
 giustificata  una  differenziata  e  piu'  rigorosa tutela rispetto a
 quella accordata ai privati. Cio' emerge con chiarezza da quei  passi
 della  relazione  ministeriale  in  cui  il  prestigio del p.u. viene
 considerato quale particolare forma di  decoro  di  chi  esercita  la
 pubblica  funzione  (relazione, 140); un bene pertanto che e' proprio
 del pubblico ufficiale sebbene faccia riferimento alla dignita' della
 funzione. In definitiva si riteneva che l'onore ed il  prestigio  del
 singolo  p.u.  meritassero  una  speciale  e  particolarmente intensa
 tutela in ragione del rispetto  dovuto  all'autorita',  rispetto  che
 consentiva di qualificare particolarmente quel bene, superando la sua
 originaria  vocazione  "personalistica".   In tal senso e' anche quel
 passo della relazione che,  dopo  aver  precisato  che  il  prestigio
 costituisce una particolare forma di decoro, lo definisce come quella
 speciale  forza  o  influenza  che  deriva  alla  persona dall'altrui
 riconoscimento dell'autorita' e della  dignita'  di  cui  la  persona
 stessa  e'  rivestita (relazione, 140). Ma cio' che piu' conta e' che
 questa impostazione ha finito per condizionare in  modo  evidente  la
 stessa  formulazione  letterale  della  norma sospetta e la struttura
 della fattispecie, essendo l'onore ed  il  prestigio  la  cui  offesa
 integra  il  reato  di  cui all'art. 341 c.p. riferiti non alla p.a.,
 come avviene ad es. nell'art. 342 c.p., bensi' al  singolo  p.u.  Non
 solo, ma la mancata previsione di un autonomo reato di diffamazione a
 pubblico   ufficiale,   pur  originariamente  previsto  nel  progetto
 preliminare (all'art. 348 c.p.), fu  motivata  proprio  in  relazione
 alla  mancanza,  in  questo  caso,  di  una  dimensione pubblicistica
 dell'offesa ed e' evidente  che  cio'  e'  legato  alla  ratio  della
 tutela,  ossia  al  principio d'autorita' e al rapporto d'imperio tra
 Stato e cittadini, nel senso cioe' che mentre  l'offesa  arrecata  in
 presenza del p.u. si considerava manifestazione di disobbedienza e di
 ribellione  all'autorita',  l'offesa arrecata in assenza del p.u. era
 considerata  meno  grave  perche'  coinvolgente   esclusivamente   la
 dimensione,  per  cosi'  dire, "privatistica" del bene dell'onore del
 p.u.  e  pertanto  priva  di  quel  rilievo  pubblicistico  tale   da
 giustificare  l'inserimento  nei reati contro la p.a. (esplicitamente
 relazione, 143).
   Sennonche' al di la' delle originarie intenzioni  del  legislatore,
 per effetto di quella confusione sopra evidenziata tra bene giuridico
 protetto e ratio della norma, ben presto la dottrina allora dominate,
 seguita  subito  dalla giurisprudenza, sposto' l'oggetto della tutela
 dall'onore  del   p.u.,   sia   pure   particolarmente   qualificato,
 all'interesse  concernente  il  normale  funzionamento e il prestigio
 della  p.a.  in  senso  lato.  Tuttavia tali beni sono intesi in modo
 assai diverso da quello imposto da una concezione "democratica" dello
 Stato e ancor piu' dei  rapporti  tra  Stato  e  cittadino.  Infatti,
 dall'ovvia  osservazione che le istituzioni non possono che agire per
 mezzo  di  organi  e  questi  per  mezzo   di   persone   fisiche   e
 dall'impropria   utilizzazione,   in  materia  penale,  del  rapporto
 organico, si fa discendere la conclusione per la quale  e'  manifesto
 che   le  offese  arrecate  a  codeste  persone  (ossia  ai  pubblici
 ufficiali), ... risalgono  all'organo  al  quale  le  persone  stesse
 appartengono,  e  dall'organo all'ente. Finendo per concludere che la
 protezione penale, quindi, e' stabilita nell'interesse  del  rispetto
 dovuto alla pubblica funzione o al pubblico servizio, e non di quello
 dovuto  alla  persona  individuale  del pubblico ufficiale (...), che
 riceve protezione soltanto riflessa.
   Al riguardo si e' acutamente osservato come una  simile  operazione
 comporti  un  indebito  processo  di  identificazione dell'oggetto di
 tutela,  erroneamente  individuato  nel  prestigio   della   pubblica
 amministrazione, con la ratio politica della disposizione colta nella
 sua  estensione  massima,  finendo  con  l'autorizzare la conclusione
 secondo  la  quale  qualunque  offesa  arrecata  contro  un  pubblico
 ufficiale,  in  sua  presenza  e  a  causa o nell'esercizio delle sue
 funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in quanto tale.
 Tale critica va condivisa perche' parlare di normale funzionamento  e
 prestigio  della p.a., incentrando tali beni sul rispetto dovuto alle
 pubbliche funzioni, significa in  sostanza  assumere  ad  oggetto  di
 tutela il dovuto ossequio e, dunque, lo stesso principio di autorita'
 nei rapporti tra Stato e privati.
   Comunque  sia, una volta accolto il sistema di "valori" proprio del
 regime che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva di  una
 sua  intima  coerenza  ed una certa precisione tecnica. Infatti, alla
 stregua della scelta di politica  criminale  secondo  la  quale  alle
 pubbliche  istituzioni  e'  dovuto  sempre  e  comunque  obbedienza e
 rispetto e  che  anzi  costituisce  un  "valore"  fondamentale,  come
 tipicamente  accade per tutti i regimi totalitari, la "fedelta'" allo
 Stato, diventa del tutto comprensibile punire, ed in  modo  rigoroso,
 ogni  offesa  all'onore  del  pubblico ufficiale, in sua presenza e a
 causa o nell'esercizio delle sue funzioni, perche' si  tratta  di  un
 comportamento   di   ribellione  all'autorita'  costituita  e  aperta
 manifestazione di spregio a quel "valore", mentre  il  profilo  della
 tutela  del  bene personale dell'onore del singolo pubblico ufficiale
 passa decisamente in seconda linea e, al limite, nulla esclude  possa
 essere  del  tutto trascurato in omaggio a quel "superiore" interesse
 statuale.
   5. - Ma i problemi veri, in termini di coerenza della  fattispecie,
 nascono  dalla  doverosa  presa  d'atto  che  sia  il  bene giuridico
 (prestigio del  pubblico  ufficiale  particolarmente  qualificato  in
 ragione  della  titolarita'  di  funzioni  pubbliche) che la ratio di
 tutela  (principio  di   autorita'),   cosi'   come   originariamente
 prospettati, sono non solo estranei al sistema di valori, si potrebbe
 dire allo "spirito", sul quale si fonda la Costituzione repubblicana,
 ma  esprimono  scelte  di  fondo  addirittura  opposte  e,  pertanto,
 incompatibili con la Costituzione medesima nel suo  complesso  e  con
 sue  specifiche  norme  e principi, come si avra' modo di argomentare
 successivamente.
   Da  cio'  trae  origine la necessita' di rinvenire, alla stregua di
 un'interpretazione   "costituzionalmente   orientata"   della   norma
 sospetta,  nuovi  beni  giuridici da assumere ad oggetto della tutela
 che siano, se non addirittura  costituzionalmente  rilevanti,  almeno
 non incompatibili con la Costituzione.
   E'  in  questo  contesto  che  quasi  sempre viene individuato come
 oggetto  di  tutela  del  reato  di  oltraggio,  ulteriore   rispetto
 all'onore  del  singolo  p.u.,  il bene giuridico del prestigio della
 p.a. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un bene che soffre  di  una
 scarsa afferrabilita' e di una persistente genericita'.
   Se  inteso nel senso sopra evidenziato, ossia in stretto legame col
 "rispetto" o l'ossequio dovuto ai pubblici  poteri,  risolvendosi  in
 sostanza  nel  principio  di  autorita',  deve  certamente  ritenersi
 incompatibile con la Costituzione, come si avra' modo  di  dimostrare
 in seguito.
   Diverso  e'  invece  il  discorso  se  viene  inteso  come  stima o
 reputazione nella comunita' degli organi e dell'attivita' della p.a.,
 perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua come suo
 fine fondamentale "l'effettiva partecipazione di tutti  i  lavoratori
 all'organizzazione  politica, economica e sociale del Paese" (art. 3,
 comma secondo, della Costituzione), fondato sul principio di  parita'
 tra   p.a.   e   cittadini   e   su   di  un  potere  individuale  di
 "partecipazione" alle attivita' burocratiche,  la  "fiducia"  di  cui
 gode  la  p.a.  nella  comunita',  sia pure non direttamente prevista
 dalla Costituzione, non appare affatto sfornita di  quella  pregnanza
 ed  importanza  che giustifica l'intervento della tutela penalistica.
 Ed anzi si potrebbe persino individuare  un  certo  collegamento  tra
 questo  bene ed il principio del buon andamento dell'amministrazione,
 perche' in un simile "modello" di p.a. e' evidente che la  fiducia  e
 la collaborazione del privato alle Istituzioni agevola lo svolgimento
 delle  funzioni pubbliche.   Un simile collegamento non e' sfuggito a
 quella giurisprudenza che costituisce l'avamposto piu'  avanzato  del
 tentativo    di   armonizzare   la   fattispecie   con   i   principi
 costituzionali. Si e' infatti osservato che  -  l'interesse  tutelato
 dalla  norma  in  esame  (...)  deve  essere  riferito  alla sfera di
 funzionalita' pubblica, che trova  esposizione  a  pericolo  ove  non
 garantita  anche  da  offese  alla  sua credibilita' ed affidabilita'
 presso la collettivita'. In tal senso l'offesa al  prestigio  assurge
 ad  esposizione  a  pericolo  di  attributi  che  devono accompagnare
 l'azione  della  pubblica  amministrazione  e  quindi  dei   soggetti
 preposti o componenti dei suoi uffici, ed il cui pregiudizio potrebbe
 risultare  ostativo  al  raggiungimento  delle  finalita' poste dalla
 legge, od all'efficacia dell'azione pubblica, incidendo sul  consenso
 che  la pubblica amministrazione deve necessariamente avere presso la
 collettivita'. - (Cass. sez.  VI  29  novembre  1995  n.  11579  imp.
 Pullella).
   La  sentenza  citata  e'  importante per due motivi. In primo luogo
 perche' sembra richiedere, ai fini dell'integrazione  del  reato,  un
 requisito  ulteriore  rispetto  alla  semplice  offesa  dell'onore  o
 prestigio  del  singolo  p.u.,  individuato  nella  idoneita'   della
 condotta  volta  a  procurare il pericolo di siffatto pregiudizio. In
 secondo  luogo  perche'  si  tratta  di  una  sentenza  che  conferma
 un'assoluzione.
   Ma,  a  ben  vedere,  non  si  tratta  di  una linea interpretativa
 realmente capace di spostare  i  termini  della  questione  circa  la
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito
 dell'idoneita' della  condotta  ad  esporre  a  pericolo  l'efficacia
 dell'azione  pubblica,  sotto  il profilo della lesione della fiducia
 presso la collettivita', e piu' apparente che reale, perche' e inteso
 nel senso di escludere condotte che gia' di per se' sono atipiche  in
 quanto  non  offensive,  alla  stregua  dei parametri socio-culturali
 vigenti, del bene dell'onore e del  prestigio  del  singolo  pubblico
 ufficiale,  come l'esame del caso di specie dimostra (soggetto che si
 limita a strappare il  verbale  di  contravvenzione  appena  elevato,
 senza  porre  in  essere  nessun'altra  manifestazione  offensiva  od
 irriguardosa; cfr. infatti gia' Cass.  18 settembre 1986 n. 9532),  e
 cosi'  smarrisce quel carattere di requisito autonomo della tipicita'
 in funzione selettiva delle condotte "realmente" offensive, che  solo
 potrebbe   consentire   di   superare  ogni  dubbio  di  legittimita'
 costituzionale. E'  evidente  che  diverso  sarebbe  il  discorso  se
 quell'elemento  fosse in grado di sottrarre dal campo di applicazione
 dell'art. 341 c.p. condotte che indiscutibilmente offendono  il  bene
 personale  dell'onore  del  pubblico  ufficiale, in quanto inidonee a
 produrre   un   concreto    pericolo    all'"efficacia    dell'azione
 amministrativa".   Ma fino a questo punto la giurisprudenza non si e'
 mai spinta, e giustamente, perche' una simile interpretazione si pone
 in evidente contrasto con la lettera della legge e presuppone giudizi
 di valore sul piano politico  criminale  che  non  le  competono.  In
 definitiva  sembra  in  questo  caso  realizzarsi il rischio di tutte
 quelle  interpretazioni  "costituzionalmente  orientate"  in  realta'
 incapaci  di  incidere  sul  contenuto  precettivo delle norme, e che
 pertanto  finiscono  col  porsi  come  strumento  di   legittimazione
 dell'esistente,  in  ipotesi  di una norma incostituzionale, la quale
 continuera'   ad   avere   la   medesima   applicazione   (in   senso
 incostituzionale), sotto una diversa giustificazione.
   In  realta' si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto il
 profilo del "consenso" o la "fiducia" presso la collettivita',  possa
 essere individuato come oggetto di tutela dell'art. 341 c.p.  Infatti
 una  simile  impostazione  e' smentita dalla struttura del reato e da
 decisive implicazioni sistematiche. Sotto il primo profilo emerge  in
 tutta  evidenza  la  mancanza  tra  gli  elementi  costitutivi  della
 fattispecie dell'elemento della comunicazione  con  piu'  persone  o,
 perlomeno,  della  presenza  di  terzi  estranei  al compimento della
 condotta punita, ossia su quel  requisito  di  "pubblicita'"  che  il
 codice  Zanardelli  richiedeva  (art.  196)  per  il  caso  di offese
 arrecate al pubblico ufficiale, non a causa delle  sue  funzioni,  ma
 nell'atto  dell'esercizio  pubblico  di  esse  (e  che  consentiva di
 incentrare la tutela sulla repressione  dello  "scandalo  pubblico").
 Sotto  il  secondo  profilo va evidenziata la mancanza di un autonomo
 titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale.
   Del resto che dei termini della questione i compilatori del  codice
 avessero  una  precisa  visione, sicche' non ci si deve stupire della
 formulazione della norma, emerge con chiarezza in quella parte  della
 Relazione  in  cui  si  spiega  che il termine reputazione (usato dal
 codice Zanardelli, insieme al  termine  onore  e  al  termine  decoro
 nell'art.    194)  qui  non  puo'  usarsi,  sia  perche'  ad  esso e'
 attribuito  un  significato  specifico  in  materia  di  diffamazione
 (offesa  fuori  della  presenza),  mentre  per  l'oltraggio e' sempre
 richiesta  la  presenza  dell'offeso,  sia  perche'  il  prestigio e'
 qualche cosa di diverso da quella stima  nella  capacita'  funzionale
 del pubblico ufficiale, alla quale si riferisce la reputazione (140).
   D'altra  parte  deve  escludersi  che  si possa aggirare l'ostacolo
 mediante un'interpretazione  "costituzionalmente  orientata",  questa
 volta davvero in grado di incidere sul contenuto precettivo dell'art.
 341   c.p.,  richiedendo  ai  fini  dell'integrazione  del  reato  il
 requisito della pubblicita'  quale  elemento  costitutivo  implicito.
 Infatti,  se si deve certamente ammettere che l'interprete sia tenuto
 a  ricostruire  i   singoli   tipi   in   conformita'   ai   principi
 costituzionali   e,   in   particolare  al  principio  di  necessaria
 offensivita', sicche' dovra' considerare atipici i comportamenti  non
 offensivi  del  bene protetto, si deve tuttavia ritenere che cio' sia
 possibile   solo   rispettando   il   limite    invalicabile    della
 compatibilita'  con la lettera della legge. Nel caso di specie non e'
 possibile  rinvenire  in   via   interpretativa   all'interno   della
 fattispecie  di oltraggio a pubblico ufficiale l'elemento costitutivo
 della pubblicita' sia  perche'  quell'elemento  manca  totalmente  di
 qualsiasi   aggancio   letterale  nella  descrizione  degli  elementi
 costitutivi, sia per le implicazioni sistematiche della  mancanza  di
 un autonomo reato di diffamazione a pubblico ufficiale, sia infine, e
 soprattutto,  perche'  la  presenza di una o piu' persone estranee al
 fatto e' prevista come circostanza aggravante a norma  dell'art.  341
 u.c.  c.p.,  ossia  come  elemento accidentale del reato, in funzione
 aggravante,  e  pertanto  si  deve  escludere  ch'esso  possa  essere
 attratto tra gli elementi costitutivi.
   6.  -  Critiche  in  parte  analoghe possono muoversi alla tesi che
 ravvisa direttamente nel buon andamento dell'amministrazione il  bene
 giuridico  tutelato  dall'art.  341  c.p.  Anche  questa  tesi omette
 infatti di individuare il rapporto  tra  il  bene  giuridico  che  si
 assume  protetto e la struttura del reato. D'altra parte, come per il
 bene del prestigio della p.a., vi e' la  tendenza  a  considerare  il
 bene  del  buon  andamento  in termini del tutto generici, svincolato
 dall'idea di efficienza e di massima aderenza all'interesse  pubblico
 che  gli  e'  proprio  e  ricondotto a formule vaghe quali quella del
 "regolare funzionamento",  dimenticando  che  la  funzione  del  bene
 giuridico  puo' essere effettivamente svolta solo in presenza di beni
 sufficientemente determinati ed "afferrabili",  rischiando  viceversa
 di smarrirsi in presenza di beni ad "amplissimo spettro".
   Ora,  e'  evidente  che il riferimento al bene "buon andamento" non
 puo' essere concepito  nel  senso  rigoroso  di  effettivo  intralcio
 all'azione  della  p.a.  in concreto svolta, perche' risulterebbe del
 tutto incomprensibile la punizione delle offese rivolte a causa delle
 funzioni ma non durante l'esercizio di esse. Non a caso la relazione,
 per giustificare la circostanza per la quale i delitti di violenza  e
 di  resistenza  si  possono commettere contro qualunque incaricato di
 pubblico servizio, mentre per  l'art.  344  puo'  essere  oltraggiato
 soltanto  il  pubblico  impiegato  che  presti  un pubblico servizio,
 afferma   espressamente   che   l'oltraggio   non   reca    intralcio
 all'andamento del servizio.
   Neppure,  per  le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi
 che  ravvisa  un  esposizione   a   pericolo   del   buon   andamento
 amministrativo  nella  lesione  del  prestigio  della  p.a.  sotto il
 profilo della "fiducia" o stima della p.a. presso la societa'.
   La  piu'  compiuta  elaborazione dottrinale della tesi e' piuttosto
 fondata, da un lato, sull'estensione massima del  concetto  di  "buon
 andamento" fino a comprendere il "normale" e/o "sereno" funzionamento
 della   p.a.   e,  dall'altro,  su  di  un'argomentazione  di  natura
 psicologistica, ossia sulla considerazione  che  le  condotte  punite
 dall'art.   341   c.p.      potrebbero   determinare  un  "turbamento
 psicologico" nel pubblico ufficiale e che cio' potrebbe a  sua  volta
 determinare  un'alterazione  del  suo  processo  decisionale  e della
 stessa azione amministrativa, resa incerta ed  esitante.  L'art.  341
 c.p.  cioe'  tutelerebbe la stabilita' emotiva del pubblico ufficiale
 nell'esercizio delle sue funzioni e,  quindi,  la  sua  capacita'  di
 decidere correttamente secondo l'interesse pubblico.
   Sennonche',  a parte il rilievo che la tesi appare in contrasto con
 l'opinione   comune    che    considera    irrilevante,    ai    fini
 dell'integrazione  del  reato, che il p.u. si sia in concreto sentito
 offeso dalla condotta oltraggiosa posta in essere (Cass. il  febbraio
 1989  n.  2027;  Cass.    28  maggio  1985  n.  5393),  assorbente e'
 l'osservazione  che  in  questo  modo  si  finisce  col   configurare
 l'obiettivita'  del reato come il pericolo di un pericolo. Infatti va
 rilevato che l'interpretazione fatta  propria  da  questa  autorevole
 dottrina,  e seguita senza incertezze dal c.d. diritto vivente (Cass.
 31 agosto 1994 n. 9417; Cass. 11 novembre  1989  n.  15559;  Cass.  6
 febbraio  1985  n.  1173;  Cass.  30  dicembre  1985  n.  12547), non
 richiede, ai fini dell'integrazione del reato, l'effettiva percezione
 dell'offesa da parte del p.u., perche' l'elemento della presenza  del
 soggetto  passivo  viene inteso come quella contiguita' spaziale tale
 da assicurare la  semplice  possibilita'  di  percezione.    Ora,  e'
 evidente  che  in  mancanza  di  effettiva percezione, non puo' farsi
 questione di "turbamento psicologico" del p.u.. Non  solo,  ma  anche
 ammessa  l'effettiva  percezione,  non  e' detto che da questa derivi
 necessariamente il tanto temuto "turbamento  psicologico"  del  p.u.,
 perche'  questo e' piuttosto un effetto che dipende da tutta un serie
 di fattori contingenti di natura oggettiva  e  soggettiva,  quali  il
 contesto,  la  posizione  sociale  del  soggetto attivo e passivo, la
 "pubblicita'" dell'azione, la "sensibilita'" personale del  p.u.    e
 cosi'  via,  sicche'  si  tratterebbe,  anche  in questo caso, di una
 semplice possibilita', un pericolo appunto.  Infine  non  e'  affatto
 detto che il "turbamento" del p.u. si traduca in un'alterazione dello
 svolgimento  delle  pubbliche  funzione alle quali e' preposto. Cosi'
 nel caso di offese arrecate semplicementea "a causa delle  funzioni",
 ma  non  nell'esercizio di esse, e' del tutto ragionevole pensare che
 il suddetto turbamento possa scemare fino a svanire del tutto con  il
 trascorrere  del  tempo,  sino  al  momento in cui il p.u. tornera' a
 svolgere le sue funzioni. Nel caso di offese arrecate nell'"esercizio
 delle  funzioni",  magari  per  motivi  del  tutto  privati,  e'  ben
 possibile che nessun nocumento al regolare svolgimento delle funzioni
 pubbliche  in  concreto si realizzi, ad es., per la presenza di altri
 p.u. non coinvolti ed in grado di sostituirsi al  collega  "turbato".
 D'altra parte vi e' almeno una classe di comportamenti, riconducibile
 alla  fattispecie  di cui all'art. 341 c.p., in cui non solo un danno
 ma neppure un mero pericolo di danno al buon andamento della p.a., e'
 escluso  alla  radice,  per  l'impossibilita'   di   ipotizzare   uno
 svolgimento  di  pubbliche  funzioni  successivo  al  reato: l'offesa
 arrecata  "a causa delle funzioni" ad un soggetto che, al momento del
 fatto, non possieda piu' la qualita' di p.u. a  norma  dell'art.  360
 c.p.
   Ora  un  pericolo  di  un pericolo di un pericolo deve ritenersi un
 "non  pericolo"  e,  come  tale,  inconciliabile  col  principio   di
 offensivita'.    Invero,  ai  fini  della legittimita' costituzionale
 delle  norme  incriminatrici  sotto  il  profilo  del  principio   di
 necessaria  offensivita',  non  e' affatto sufficiente individuare un
 bene giuridico di rango tale da giustificare, in astratto, la  tutela
 penalistica,  dovendosi estendere l'indagine in ordine all'ampiezza e
 all'intensita'  della   tutela   medesima   nonche'   alla   gravita'
 dell'offesa.  Da  questo  punto  di  vista  anche un bene sicuramente
 primario, quale puo' essere per esempio la vita,  non  riuscirebbe  a
 giustificare,   sul  piano  della  compatibilita'  col  principio  di
 necessaria offensivita', costituzionalmente imposto, una cosi' spinta
 anticipazione della tutela che  conducesse  alla  punizione  di  atti
 meramente preparatori o di mera manifestazione della volonta' o della
 "tendenza" a commettere un omicidio.
   Oltre  tutto  la  tesi  che  ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di
 pericolo astratto, presunto in via assoluta ed irrimediabile, finisce
 col  sollevare  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  forse  anche
 maggiori di quelli che pretende aver risolto.
   E' infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo di
 per  se'  incostituzionali,  devono  tuttavia  rispettare determinati
 requisiti, in relazione sia al principio  di  proporzione  (art.  27,
 terzo  comma,  della  Costituzione),  sia  al principio di necessaria
 offensivita' (art. 25, secondo comma, della Costituzione), sia infine
 al principio di ragionevolezza (art. 3 della  Costituzione),  che  la
 stessa  Corte  costituzionale ha precisato con grande efficacia (cfr.
 sentenza 10-11 luglio 1991 n. 333). Devono  infatti  essere  posti  a
 tutela  di  beni  di  rango  assolutamente fondamentale ed afferire a
 settori in cui questa anticipazione di tutela  risulti  razionalmente
 giustificata   da   particolari   esigenze  di  prevenzione  (ad  es.
 situazioni di pericolo diffuso  incidenti  su  beni  collettivi  come
 l'ambiente o l'economia pubblica), ed inoltre occorre che le condotte
 riconducibili al fatto tipico siano selezionate in modo pregnante, in
 modo  cioe' che la presunzione assoluta di pericolo sia supportata da
 corrette  verifiche  empiriche,  ossia  giustificata   dall'id   quod
 plerumque  accidit,  costituendo  altrimenti  una  scelta  del  tutto
 irragionevole ed arbitraria e pertanto censurabile a norma  dell'art.
 3  della Costituzione. Orbene, entrambe le condizioni di legittimita'
 dei reati di pericolo presunto non sembrano soddisfatte dall'art. 341
 c.p., perche', da un  lato,  e'  innegabile  la  distanza  di  questa
 fattispecie  dai  settori  in cui legittimamente e' utilizzata questa
 tecnica legislativa e, dall'altro, e' proprio l'esperienza concreta a
 smentire quella presunzione di pericolosita'  della  condotta  tipica
 alla stregua dell'art. 341 c.p.
   Infine  la tesi, nonostante le premesse, non riesce a liberarsi del
 tutto dalla concezione autoritaria che storicamente e'  a  fondamento
 della   norma,  perche'  il  pericolo  di  alterazione  del  processo
 decisionale del p.u. conseguente alla  mera  offesa  all'onore  o  al
 prestigio  del  p.u. si giustifica solo in un sistema di p.a. fondato
 sul dovere di obbedienza del privato, la cui violazione puo'  appunto
 comportare  un'alterazione  del  regolare  esercizio  della  funzione
 pubblica,  ma  risulta  difficilmente  comprensibile  in  un  sistema
 fondato sulla qualificazione delle attivita' burocratiche  come  modi
 di esercizio del potere di partecipazione individuale e, pertanto, su
 di una parificazione tra funzionari pubblici e privati cittadini.
   7.  -  Si  deve  pertanto concludere che il bene protetto dall'art.
 341 c.p. sia unicamente l'onore ed il  prestigio  del  singolo  p.u.,
 perche'  solo  questo  e'  sempre  ed immancabilmente raggiunto dalla
 condotta criminosa tipica.
   Con cio' naturalmente non si intende negare che  la  tipicita'  del
 reato  e' tanto ampia da abbracciare, eventualmente, concrete ipotesi
 in cui oltre ad essere offeso questo bene sia offeso  anche  il  bene
 del  prestigio (ad es. offese arrecate "pubblicamente") o addirittura
 del buon andamento della p.a. (si pensi al caso  di  offese  arrecate
 mediante   violenza   o   minaccia  e  non  solo  a  causa  ma  anche
 nell'esercizio delle funzioni: in questi casi,  da  un  lato,  spesso
 l'azione  amministrativa subisce un concreto intralcio e, dall'altro,
 il  riferimento  al  "turbamento"  del   p.u.   acquista   certamente
 pregnanza).  Ma  si  tratta  di  casi,  dal punto di vista statistico
 marginali, quasi sempre aggravati ai sensi dell'art. 341 u.c. c.p.  o
 in  cui  e' possibile ravvisare l'integrazione, in concorso formale o
 in continuazione col reato di oltraggio, anche dei reati di cui  agli
 artt.  336  e 337 c.p., chiaramente e tipicamente rivolti alla tutela
 del libero svolgimento  dell'azione  amministrativa,  tali  cioe'  da
 assorbire  integralmente  l'offesa  a  quel  bene.  Invece le ipotesi
 riconducibili alla fattispecie semplice si risolvono spesso,  se  non
 sempre,  in  fatti  obbiettivamente  "bagattellari", ed in cui ne' il
 prestigio  ne'  il  buon  andamento  della  p.a.  possono   ritenersi
 seriamente colpiti.
   Insomma   si   tratta  di  prendere  realisticamente  atto  che  il
 legislatore non si e' preoccupato di selezionare solo e  soltanto  le
 ipotesi   concretamente  offensive  di  quei  beni,  configurando  al
 contrario  una   fattispecie   onnicomprensiva,   in   cui   ricadono
 indistintamente condotte dal disvalore sociale profondamente diverso,
 perche'  incidenti  su beni giuridici diversissimi. Piu' precisamente
 ancora il legislatore del 1930 ha  tipizzato  una  fattispecie  tanto
 ampia   semplicemente  perche'  e'  partito  da  scelte  di  politica
 criminale  del  tutto  diverse,  per  non  dire  opposte,  mentre  il
 legislatore repubblicano, al quale spettava il compito di adeguare la
 struttura del reato sulla base di scelte di valore compatibili con la
 Costituzione, e' rimasto del tutto inerte.
   Una  conferma di questa conclusione e' rintracciabile, ad avviso di
 questo  pretore,  nella  stessa  sentenza  n.   341/1994   che,   pur
 confermando  in  termini generali la plurioffensivita' del reato, che
 in linea di principio rende  improponibile  il  raffronto,  ai  sensi
 dell'art.    3 della Costituzione, con il reato di ingiuria, tuttavia
 ravvisa l'incostituzionalita' per i casi piu'  lievi,  nei  quali  il
 prestigio  ed  il  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione,
 scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in  modo  cosi'
 irrisorio   da   non   giustificare   che   la   pena   minima  debba
 necessariamente essere dodici volte superiore a quella  prevista  per
 il  reato  di ingiuria.  L'illegittimita' costituzionale viene dunque
 argomentata anche dal  raffronto  con  il  trattamento  sanzionatorio
 previsto  dall'art.  594  c.p. ed e' allora evidente che i "casi piu'
 lievi",  proprio  perche'  legittimano  il  paragone  col  reato   di
 ingiuria, normalmente interdetto dalla plurioffensivita' del reato di
 oltraggio,  non  attengono  affatto,  nonostante le apparenze, ad una
 differenza di quantita' dell'offesa,  bensi'  ad  una  differenza  di
 qualita',  nel  senso  cioe'  che  si  tratta  di  casi  in cui, come
 nell'ingiuria, ad essere offeso e' esclusivamente il  bene  personale
 dell'onore  del  singolo  p.u.  e non anche, se non in modo del tutto
 irrisorio, i beni del prestigio  e  del  buon  andamento  della  p.a.
 Insomma  e'  la  stessa  Corte  costituzionale  ad essere giunta alla
 conclusione che l'ampia tipicita'  tratteggiata  dall'art.  341  c.p.
 comprende  ipotesi  tra loro eterogenee quanto a disvalore, mentre la
 dichiarazione di incostituzionalita'  con  esclusivo  riferimento  al
 minimo  edittale,  si  spiega  col limite che in quella occasione era
 imposto dalla questione sollevata, non coinvolgente ne' la previsione
 del limite massimo di pena, ne' le rimanenti  disposizioni  dell'art.
 341  c.p.,  come  si  chiarisce con una precisazione posta ad incipit
 della sentenza.
   Peraltro la reale inconsistenza, rispetto  al  reato  di  ingiuria,
 dell'autonoma  e  distinta  obiettivita'  giuridica della fattispecie
 emerge anche da considerazioni non strettamente giuridiche.
   In primo luogo la prassi giudiziaria, dopo la sentenza n. 341/1994,
 si e' subito assestata nel senso di applicare, in  caso  di  condanna
 per  il  reato  di  oltraggio  a pubblico ufficiale, pene stabilmente
 ancorate al "nuovo" minimo edittale di giorni quindici di reclusione,
 con la concessione di tutti  i  benefici  possibili  ed  immaginabili
 (come  la  sospensione condizionale della pena e/o la sostituzione in
 pena pecuniaria), il che', oltre a confermare che i "casi piu' lievi"
 costituiscono la quasi totalita' delle condotte  punite,  costituisce
 prova  di  quel  disagio  dei  giudici  di  merito,  gia'  acutamente
 sottolineato dalla stessa Corte costituzionale e che trova  riscontro
 anche  nella  mutata  coscienza  sociale, che stenta a riconoscere in
 queste condotte un  disvalore  trascendente  l'offesa  all'onore  del
 singolo p.u.
   In  secondo luogo persino gli autori che considerano costituzionale
 l'art. 341 c.p., sottolineano l'opportunita' di una riforma in ordine
 non solo all'aspetto sanzionatorio, ma anche alla struttura del reato
 con un consistente restringimento della fattispecie,  sia  nel  senso
 della drastica limitazione delle categorie dei soggetti tutelati, sia
 nel senso dell'introduzione di ulteriori elementi costitutivi, capaci
 di  garantire un contenuto offensivo tipico effettivamente lesivo del
 prestigio o del buon andamento della p.a.
   In terzo luogo numerosi sono stati i progetti di riforma, purtroppo
 mai andati in porto, i piu' risalenti dei quali limitati  all'aspetto
 sanzionatorio  o all'introduzione di particolari attenuanti (cfr.  ad
 es. il disegno  di  legge  "riforma  del  codice  penale"  presentato
 dall'on.  Gonella  al  senato il 19 novembre 1968 che fissava la pena
 base nella reclusione  sino  a  due  anni,  con  la  possibilita'  di
 irrogare  solo la pena della multa "qualora il fatto risulti di lieve
 entita'"), mentre le piu' recenti proposte sono decisamente nel senso
 della eliminazione  della  fattispecie  e  della  previsione  di  una
 semplice  aggravante  del  reato di ingiuria (cfr. lo schema di legge
 delega per l'emanazione del nuovo codice penale del 1992).
   Infine l'analisi comparatistica conferma che in quasi tutti i paesi
 di democrazia matura, a noi piu' vicini, non esiste un autonomo reato
 di oltraggio a  pubblico  ufficiale  comparabile  col  reato  di  cui
 all'art.    341  c.p.  mentre  l'onore  dei  pubblici ufficiali viene
 tutelato allo stesso modo dell'onore di qualsiasi privato cittadino.
   8.  -  L'aver  escluso  che prestigio e/o buon andamento della p.a.
 costituiscano il bene  giuridico  tutelato  dall'art.  341  c.p.  non
 esclude,  di  per  se',  che  possano  essere assunti, nel quadro del
 mutato assetto costituzionale, come la  ratio  politico  -  criminale
 della  norma,  in  sostituzione  alla  ratio  originaria, fondata sul
 principio d'autorita'.  Infatti si e' gia' visto come la ratio  della
 norma,  al  contrario del bene giuridico, non impone di rinvenire, in
 ogni singola e concreta condotta punita, un coinvolgimento diretto ed
 immediato  di  quell'interesse  che  ne  costituisce  il  fondamento,
 riposando  normalmente  su  intenti  di  prevenzione generale di piu'
 ampia portata. Resta tuttavia da stabilire se lo strumento apprestato
 sia davvero congruente rispetto al fine  che  si  assume  perseguito,
 sotto  il  profilo  della ragionevolezza, tenendo ben presente che la
 fattispecie  e'  stata  originariamente  tipizzata  sulla   base   di
 tutt'altra  ratio,  sicche'  occorre  in primo luogo verificare se la
 formula  legislativa  sia  sufficientemente  flessibile  per   essere
 piegata a diverse finalita', e in secondo luogo se tale finalita' sia
 davvero  capace  di  giustificare  razionalmente  la  diversa  e piu'
 rigorosa tutela dell'onore dei p.u. rispetto  all'onore  dei  privati
 cittadini,  alla luce di tutte le norme costituzionali che vengono in
 considerazione.
   9. - Venendo finalmente alle  norme  costituzionali  con  le  quali
 l'art. 341 c.p. sembra entrare in rotta di collisione, viene in prima
 battuta  in  considerazione  il  principio  per  il  quale  "tutti  i
 cittadini hanno pari dignita'  sociale  (...)  senza  distinzione  di
 (...)  condizioni  personali  e  sociali" (art. 3, primo comma, della
 Costituzione).  Al  riguardo  va  osservato,  da  un  lato,  come  la
 Costituzione consideri primo valore costituzionale la persona in se',
 prescindendo dalle qualita' ad essa inerenti e dalle mansioni da essa
 esercitate,   e,   dall'altro,  che  il  bene  tipicamente  personale
 dell'onore, inteso come valore  morale  intrinseco  alla  persona  in
 quanto  tale,  altro  non  e'  che  un  particolare aspetto di quella
 dignita' sociale cui fa  riferimento  l'art.  3  della  Costituzione,
 rientra  nei  diritti  inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2
 della Costituzione ed e', infine, per sua natura, eguale in tutti gli
 uomini, indipendentemente da giudizi sociali di merito o di demerito.
 Posta questa premessa e' evidente che  l'art.  341  c.p.,  in  quanto
 comporta  una  tutela  privilegiata  dell'onore  del  p.u. rispetto a
 quella apprestata all'onore dei privati cittadini dall'art. 594 c.p.,
 si pone in contrasto, in  modo  diretto,  col  principio  della  pari
 dignita'  sociale,  nella  misura  in  cui si escluda che esso tuteli
 altri e diversi beni giuridici. Invero la  diversa  e  piu'  rigorosa
 tutela  prevista dall'art. 341 c.p., rispetto all'art. 594 c.p. viene
 collegata al mero status di pubblico ufficiale, utilizzando cioe'  un
 criterio   di  distinzione,  quello  delle  "condizioni  personali  e
 sociali",  espressamente  fatto  oggetto  di  divieto   dalla   norma
 costituzionale. D'altra parte non puo' essere negato che il principio
 di  uguaglianza e' un principio fondamentale che, in quanto tale, non
 ammette limitazione se non fondate  su  interessi  costituzionalmente
 rilevanti.
   Da  questo  punto  di vista occorre appunto verificare se la tutela
 diversificata  dell'onore  del   p.u.   possa   trovare   ragionevole
 giustificazione  nella  ratio  del principio del buon andamento della
 p.a., costituzionalmente rilevante a norma dell'art. 97, primo comma,
 della Costituzione.  Ma una simile prospettiva non sembra  seriamente
 praticabile  e  cio'  almeno  per  tre  ragioni.   La prima e' che il
 principio del  buon  andamento  della  p.a.,  peraltro  difficilmente
 estensibile  sino  al  punto  da  comprendere  il  semplice  "normale
 funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto dalla  Costituzione
 come valore in se', ma piuttosto come valore funzionale rispetto alla
 garanzia  dei diritti inviolabili dei cittadini e, pertanto, non puo'
 assumersi il diritto alla pari dignita' sociale "in  funzione"  della
 piena  realizzazione  dell'interesse al buon funzionamento della p.a.
 In secondo luogo occorre prendere atto  che  la  fattispecie  di  cui
 all'art.  341 c.p. e' stata strutturata seguendo direttrici di tutela
 addirittura opposte, fondate sul principio  d'autorita'  e  la  norma
 tradisce  questa  origine  ad  ogni  applicazione  concreta, tanto da
 risultare in larga misura insensibile, sotto il profilo del  concreto
 contenuto  precettivo,  al  mutamento di prospettiva, sul piano dello
 scopo politico criminale, imposto dai  nuovi  valori  costituzionali.
 Se   ne  deve  pertanto  dedurre  che  lo  strumento  apprestato  sia
 radicalmente inidoneo ed  incongruo  rispetto  al  fine  prospettato,
 perche' finisce col punire, in modo del tutto sproporzionato, oltre a
 condotte  in  qualche modo coinvolgenti anche il buon andamento della
 p.a., sia pure in senso assai lato,  intere  categorie  di  condotte,
 sovrastanti  dal  punto  di  vista  quantitativo  le  precedenti, che
 tipicamente nulla hanno a che fare con  quel  fine,  con  conseguente
 violazione  ancora  dell'art.  3 della Costituzione, sotto il profilo
 del criterio di ragionevolezza.
   In terzo luogo e' la giustificazione  stessa  alla  diversa  tutela
 accordata  all'onore  del  p.u.  incentrata  sul "buon andamento" che
 contrasta col "modello" di p.a. accolto dalla  Costituzione.  Infatti
 il rapporto tra p.a. e cittadino nell'attuale assetto costituzionale,
 e'  essenzialmente  paritario  e di "partecipazione", con un netto ed
 inequivocabile rifiuto del principio di  autorita'  e  di  "fedelta'"
 allo  Stato,  caratterizzante il precedente regime. Cio' lo si desume
 anzitutto dal principio secondo il quale "la sovranita' appartiene al
 popolo" (art. 1, secondo comma, della Costituzione). E' ben vero  che
 l'esercizio  della  sovranita'  e' consentito solo "nelle forme e nei
 limiti  della  Costituzione"  ma  cio'  non  toglie,  da   un   lato,
 l'importanza   dell'affermazione   dell'originaria  appartenenza  del
 potere al popolo e, dall'altro, grazie al collegamento con  il  resto
 della  Costituzione  e,  in primo luogo col principio personalista di
 cui all'art. 2 della Costituzione, la  possibilita'  di  rinvenire  a
 carico   di  chi  in  concreto  esercita  il  potere  un  vincolo  di
 corrispondenza ai fini propri del  tipo  di  ordine  garantito  dalla
 Costituzione   medesima,   con   particolare  riferimento  al  metodo
 democratico come il solo che possa determinare la politica  nazionale
 (art.  49  della  Costituzione), con conseguente stretto collegamento
 tra la concezione dei rapporti tra  Stato  e  cittadini  e  la  forma
 (democratica) di Stato accolta.  Inoltre il collegamento con l'art. 2
 Cost.  consente  di  riconoscere, come autorevolmente e' stato detto,
 fra i diritti inerenti della persona  e  in  posizione  assolutamente
 primaria   quello   di   far  discendere  la  soggezione  del  popolo
 all'autorita' statale dal  riconoscimento  della  partecipazione  del
 medesimo  alla  sua formazione ed all'esplicarsi della sua successiva
 attivita'. Cio' emerge anche nell'indicazione,  come  fine  primario,
 dell'"effettiva     partecipazione     di    tutti    i    lavoratori
 all'organizzazione  politica,  economica  e   sociale   del   Paese",
 nell'art.    3,  secondo  comma, della Costituzione. Ne deriva che le
 attivita' burocratiche vengono a porsi come  modi  di  esercizio  del
 potere  di  partecipazione  individuale con conseguente parificazione
 della condizione  personale  degli  appartenenti  alla  burocrazia  a
 quella  di  tutti  i  cittadini. Da questo punto di vista il fine del
 buon andamento della p.a. non sembra in  grado  di  giustificare  una
 peculiare  tutela  dei  p.u. rispetto a quella spettante ai cittadini
 proprio perche', cosi' facendo, si viene ad  inficiare  la  posizione
 paritaria  tra  funzionari  e  cittadini,  reintroducendo,  in  forma
 larvata,  quel  principio  d'autorita'  che  si  era  invece   voluto
 decisamente respingere.
   Dal  mutamento di prospettiva che considera la p.a. al servizio del
 cittadino e non viceversa,  discende  piuttosto  la  possibilita'  di
 ravvisare  maggiori  doveri  in  capo  ai pubblici funzionari, la cui
 violazione comporta responsabilita' sia all'interno  che  all'esterno
 della   p.a.,   in  funzione  di  garanzia  per  il  buon  andamento,
 l'imparzialita' e la legittimita' dell'azione degli uffici  cui  sono
 preposti,  come  si  puo' desumere dagli art. 28 e 54, comma secondo,
 Cost. Ed anzi dall'art. 54, secondo comma, della Costituzione  si  ha
 la  conferma che l'"onore" del p.u. si configura non come rispetto od
 ossequio dovutogli, bensi' come conseguenza del rigoroso  adempimento
 dei  propri  doveri,  sicche'  il  p.u.  non  ha  tanto  il "diritto"
 all'onore, perlomeno non un diritto diverso da  quello  spettante  ad
 ogni  uomo,  quanto  piuttosto  il  "dovere"  di  meritarsi  stima  e
 considerazione presso  la  collettivita'  mediante  un  comportamento
 legale,  efficiente ed imparziale. In conclusione il funzionario deve
 essere considerato, nell'attuale assetto  costituzionale,  non  tanto
 come  "autorita'",  bensi'  come  servitore dell'interesse generale e
 come  soggetto  che  non  fa  altro  che  esercitare  il  potere   di
 partecipazione   proprio   di   ogni   cittadino.      Come  si  vede
 un'impostazione assai diversa, per non dire opposta, di quella  degli
 Stati  totalitari e teocratici, secondo la quale non esistono diritti
 dei sudditi verso lo Stato ma solo doveri,  attesa  l'origine  divina
 del  potere e la derivazione divina del sovrano.  Ed e' evidente che,
 mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di  obbedienza  anche
 una   semplice   offesa  al  p.u.,  in  sua  presenza  e  a  causa  o
 nell'esercizio delle sue  funzioni,  puo'  ragionevolmente  assumersi
 come  possibile  causa  di  un'alterazione  del "normale svolgimento"
 dell'esercizio della funzione, appunto perche'  segno  di  ribellione
 all'autorita'  e,  in  quanto  tale, in contrasto col modello di p.a.
 accolto, cio' deve invece essere decisamente negato in un sistema  di
 p.a.  fondato sulla parita' tra cittadino e funzionario e sul diritto
 dei privati alla "partecipazione" all'attivita' burocratica. E' cioe'
 del tutto naturale che il concetto  di  "normale  svolgimento"  delle
 funzioni  pubbliche  non  sia  sempre  uguale  a se stesso ma risulti
 storicamente condizionato, essendo diretta conseguenza dei principi e
 delle norme che regolano l'azione della p.a. nei  suoi  rapporti  coi
 privati.
   10.  -  Ma  l'art.  341  c.p.,  oltre  a  violare  il  principio di
 uguaglianza e le regole che disciplinano i rapporti  della  p.a.  coi
 privati,  si  pone  in contrasto anche col "volto costituzionale" del
 moderno diritto penale, che viene a caratterizzarsi soprattutto  come
 sistema  di limiti sostanziali al legislatore (sentenza 23-25 ottobre
 1989 n. 487).
   Un simile contrasto si manifestera' con maggiore evidenza,  laddove
 si  sappiano  cogliere  le  correlazioni  sistematiche tra i principi
 costituzionali che vengono in considerazione e tenendo  presente  che
 oggetto della censura e' "il di piu'" di tutela penalistica accordata
 dall'art. 341 c.p. rispetto alle esigenze connesse al bene dell'onore
 del singolo p.u.
   Al  riguardo  viene  anzitutto  in  considerazione  il principio di
 necessaria offensivita',  strettamente  legato  alla  concezione  del
 diritto penale come extrema ratio (c.d. principio di sussidiarieta'),
 che  si  deve  ritenere  costituzionalizzato  per via di implicazione
 logica dagli artt. 25, comma secondo  (in  particolare  dall'uso  del
 termine  "fatto")  e  27, terzo comma, della Costituzione, letti alla
 luce dell'art.  13 della Costituzione. Infatti posto che con la  pena
 si  viene  ad  incidere  su  di  un  bene  primario  come la liberta'
 personale (art.  13 della Costituzione), oltre che  su  altri  valori
 fondamentali,  quali  la  dignita' sociale ed il pieno sviluppo della
 personalita' umana (art. 3 della Costituzione), intanto si giustifica
 in quanto sia diretta a tutelare beni socialmente apprezzabili.  Cio'
 comporta  l'adozione  di  un  "modello"  liberale  di  diritto penale
 fondato sull'esigenza di tutelare un concreto interesse,  offeso  dal
 fatto  tipico.    Nel  caso  dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la
 possibilita' di assumere ad oggetto di tutela il prestigio o il  buon
 andamento  della p.a., che semmai possono essere considerati sotto il
 profilo della ratio politico criminale, per la lontananza rispetto al
 fatto tipico che li rende beni in concreto non aggredibili, perlomeno
 nella  maggioranza  dei  casi,  dalla  condotta  punita  cosi'   come
 tipizzata,  e'  evidente  che la previsione dell'oltraggio a pubblico
 ufficiale come autonomo  titolo  di  reato  non  si  giustifica,  non
 potendosi  rinvenire  tale  giustificazione  nell'esigenza  di tutela
 dell'onore del singolo p.u., gia' compiutamente "coperta" dal diverso
 reato di cui all'art.  594 c.p. (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10
 c.p.).    D'altra    parte    recuperare     l'originaria     ragione
 dell'incriminazione,  ossia  la particolare qualificazione dell'onore
 del p.u. in ragione del principio di autorita', oltre  ad  aprire  la
 strada  alla  prima  censura sopra evidenziata della violazione della
 pari dignita' sociale e  del  modello  costituzionale  di  p.a.,  non
 consente  di  risolvere  il  problema neppure sotto il profilo qui in
 esame. Infatti se e' vero che il modello del  reato  come  offesa  ai
 beni  giuridici  nulla  garantisce in ordine ai contenuti delle norme
 incriminatrici che, pur rispettando formalmente quel modello, possono
 essere i piu' illiberali, come proprio la  legislazione  del  periodo
 fascista, in taluni settori, dimostra, si deve tuttavia osservare che
 nel  caso  di  specie  l'assunzione  ad  oggetto di tutela di un bene
 giuridico strettamente connesso al  principio  di  autorita'  in  se'
 considerato,  e  conseguentemente al dovere di obbedienza del privato
 nei confronti dello Stato,  finisce  col  compromettere  non  solo  i
 contenuti  ma  anche  la  forma stessa di un diritto penale liberale,
 scivolando verso modelli illiberali, come quelli propri  del  diritto
 penale  della  volonta'  o  dell'atteggiamento  interiore,  a  sfondo
 eticizzante, o del diritto penale dell'infedelta' allo Stato; modelli
 cioe'   che   tendono  a  concepire  il  reato  in  termini  di  pura
 disobbedienza alle norme statuali.  Un altro  principio  fondamentale
 che   viene   in  considerazione  e'  il  principio  di  proporzione,
 desumibile dalla funzione rieducativa della pena di cui all'art.  27,
 terzo  comma,  della  Costituzione,  purche'  estesa  anche alla fase
 dell'astratta   previsione   normativa,   oltre   che    alla    fase
 dell'applicazione  giudiziale e dell'esecuzione. Infatti la finalita'
 rieducativa postula che il reo avverta che  il  trattamento  punitivo
 inflittogli  sia  proporzionato  al  disvalore  del  fatto  commesso,
 perche' altrimenti si  stimola  un  atteggiamento  di  ostilita'  nei
 confronti dell'ordinamento.
   Si  tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico, e
 che  costituisce  un'applicazione  del  piu'  generale  principio  di
 uguaglianza  di cui all'art. 3 della Costituzione, risolvendosi nella
 necessita' che la scelta dello strumento per raggiungere il fine  sia
 limitata  da  considerazioni razionali rispetto ai valori, ma che, in
 materia penale, acquista  una  forza  cogente  tutta  particolare  in
 ragione  del  fatto  che  lo  strumento  penale  viene ad incidere su
 diritti   fondamentali    dell'individuo.    Quale    vincolo    alla
 discrezionalita'  legislativa in materia penale il principio equivale
 a   negare   legittimita'   alle   incriminazioni   che,   anche   se
 presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
 prevenzione, producono, attraverso la pena, danni  all'individuo  (ai
 suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
 maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
 tutela dei beni e dei valori delle predette incriminazioni  (sentenza
 n. 409/1989 cit.).
   Da  questo  punto di vista il principio di proporzione opera su due
 piani, altrettanto  importanti:
     a) sul piano della congruenza tra gravita'  del  fatto  tipico  e
 sanzione,  comportando  la  necessita'  di  un  giudizio  relazionale
 interno alla norma (tra fatto e pena),  in  considerazione  del  bene
 della  liberta' personale sacrificato dalla pena (con possibilita' di
 un esito diverso a seconda del tipo di pena previsto,  posto  che  la
 pena  pecuniaria  solo  eventualmente  ed  in  misura minore viene ad
 incidere  su  quel  bene,  attraverso  la  conversione  in   liberta'
 controllata  o  in lavoro sostitutivo in caso di insolvibilita': art.
 102 legge n. 689/1981), ed in tal caso il  giudizio  non  riguardera'
 direttamente  lo  scopo o la ratio dell'incriminazione, che rimarra',
 per cosi' dire sullo sfondo, ma piuttosto gli elementi di definizione
 dell'offesa  (modalita'  di  lesione  tipizzate  e   bene   giuridico
 tutelato)  ed il suo eventuale esito negativo comportera' conseguenze
 esclusivamente sulla disciplina sanzionatoria;
     b) sul piano della congruenza tra strumento normativo,  ossia  la
 fattispecie  criminosa,  e  finalita'  che  con  l'incriminazione  si
 intende perseguire, ed in tal caso e'  evidente  che  l'ambito  della
 valutazione   e'   piu'   ampio   perche'   coinvolgente   la   ratio
 politico-criminale della norma, che e' un elemento esterno alla norma
 stessa. In questo seconda prospettiva cio' che  assume  rilevanza  in
 via  diretta non e' il profilo sanzionatorio, bensi' la struttura del
 reato, perche' e' il  riferimento  alle  caratteristiche  tipologiche
 dell'offesa  a  consentire il giudizio di congruenza con la finalita'
 perseguita, mentre l'eventuale esito negativo del  giudizio  dovrebbe
 comportare   l'incostituzionalita'  della  stessa  sussistenza  della
 fattispecie, perche' in tal caso la sproporzionatezza attiene non  al
 quantum ma all'an della tutela penalistica.
   Quanto  ai  casi  in  cui si realizza la sproporzione, nel senso da
 ultimo indicato, ritiene questo pretore che cio' si verifichi  quando
 le condotte punite siano descritte in modo tanto ampio da abbracciare
 non  solo  alcune ipotesi marginali (il che non comporterebbe profili
 di illegittimita'  costituzionale  ma,  semmai,  semplici  motivi  di
 inopportunita'  politica),  ma  addirittura  l'assolta maggioranza di
 condotte,  la  cui  punizione  non  ha  alcuna  attinenza  col   fine
 perseguito.  In  tal  caso  infatti  non  si  potrebbe  escludere  la
 macroscopica  irragionevolezza  dell'incriminazione,  non   solo   in
 riferimento  all'art. 27, terzo comma, della Costituzione ma anche in
 riferimento allo stesso art. 3 Costituzione.  Nel caso di  specie  si
 e'  gia' abbondantemente argomentata la particolare "distanza" tra la
 struttura del reato di cui all'art. 341 c.p. e gli  scopi  di  tutela
 legittimamente   assumibili   alla   stregua   del   vigente  assetto
 costituzionale, ossia il prestigio, inteso  come  stima  e  "fiducia"
 presso  la  collettivita',  ovvero  il buon andamento della p.a., nel
 senso cioe' che solo in un  numero  irrisorio  dei  casi,  quei  fini
 trovano  corrispondenza  nella  realta', mentre nella maggioranza dei
 casi si tratta di condotte che nulla vi hanno a che  fare  e  la  cui
 punizione,  sulla  base  di  un  titolo  di reato autonomo e distinto
 rispetto  al  reato  di  cui  all'art.  594  c.p.,  trova   esclusiva
 giustificazione  sulla base dell'originaria ratio di tutela, ossia il
 principio di autorita' ed il  rapporto  di  sudditanza  tra  Stato  e
 cittadini.    Se    questo   e'   vero   non   si   potrebbe   negare
 l'incostituzionalita' dell'art. 341 c.p.  quale mezzo  sproporzionato
 e, quindi, macroscopicamente irragionevole, rispetto al fine.
   Al   riguardo   viene   in   considerazione   un   altro  principio
 fondamentale, con funzione di garanzia, proprio del  moderno  diritto
 penale, ossia il principio di sufficiente determinatezza direttamente
 desumibile  dalla riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma,
 della Costituzione perche' nel caso di specie ed in riferimento  alle
 ratio  di  tutela  individuate,  appare  evidente  che le espressioni
 utilizzate  per  collocare  l'offesa  all'onore  del  p.u.   in   una
 dimensione  "pubblicistica",  che  va  cioe'  oltre alla tutela della
 persona del singolo p.u. e quindi tale da giustificare  l'inserimento
 nei  reati  contro  la  p.a. (in particolare l'espressione "a causa o
 nell'esercizio delle sue funzioni", ma anche il riferimento a tutti i
 p.u. e, a norma  dell'art.  344  c.p.,  ai  pubblici  dipendenti  che
 prestino  un  pubblico  servizio), sono caratterizzate da un grado di
 estensione  tale  da  designare  realta'  profondamente   diverse   o
 addirittura eterogenee quanto a disvalore, venendo cosi' ad integrare
 un  vizio classico di deficit di determinatezza, quello per eccessiva
 onnicomprensivita'  della  realta'  rappresentata  (cfr.    circolare
 Presidenza  del  Consiglio  dei Ministri cit., 18). Insomma il "tipo"
 individuato dall'art. 341 c.p. non risulta espressivo di un  omogeneo
 contenuto  di disvalore. La spiegazione del perche' cio' sia accaduto
 e' ancora una volta storica e riposa sull'osservazione che,  come  e'
 noto,  il  legislatore nell'elaborare le norme compie un procedimento
 di astrazione dagli oggetti della realta' sensibile, tutti in  quanto
 tali   diversi  tra  loro,  in  base  al  quale  sono  apprezzate  le
 somiglianze e trascurate le differenze sino ad ottenere una classe di
 oggetti   ritenuti   sostanzialmente  "uguali"  e  riconducibili  nel
 significato concettuale espresso  dal  segno  linguistico.  Cio'  che
 pero'  orienta questo processo sono scelte di valore, sicche' diverse
 scelte di valore comportano generalmente esiti diversi. Nel  caso  di
 specie  l'elaborazione  della  norma e' avvenuta, nel 1930, su di una
 scelta di valore, fondata sul principio di autorita', nel cui  ambito
 il  reato  e'  effettivamente  in  grado di esprimere un contenuto di
 disvalore del tutto omogeneo. Invece  una  volta  che  la  scelta  di
 valore  viene  cambiata,  perche'  cio' e' imposto dall'avvento della
 Costituzione, l'estensione della norma, rimasta invariata,  non  puo'
 non  destare  fondate  perplessita'  di  legittimita' costituzionale,
 perche' a questo punto si realizza  quella  insopportabile  sfasatura
 tra  la  realta'  significata  e  i contenuti valutativi sottesi alla
 fattispecie, nella quale consiste  la  ragione  piu'  profonda  della
 violazione  dell'art.  25, comma secondo, della Costituzione e, sotto
 il  profilo  della  ragionevolezza,  dell'art.  3  Costituzione.   In
 sostanza  il  significato  concettuale, espresso dalla formula di cui
 all'art.   341 c.p., privato  di  cio'  che  efficacemente  e'  stata
 chiamata   l'"anima   valutativa"   sua   propria  (il  principio  di
 autorita'),  e'  divenuto  vuoto,  finendo   per   distribuire   pene
 obbligatoriamente detentive senza alcuna razionale giustificazione o,
 perlomeno,  in  casi  largamente  sovrabbondanti  rispetto  a  quanto
 imporrebbero le nuove ratio  di  tutela  costituzionalmente  imposte.
 Cio',   naturalmente,   comporta   la   necessita'   di  superare  la
 tradizionale  diffidenza  verso   il   principio   di   tassativita',
 riconoscendo  la  sua  violazione  non solo quando i limiti "esterni"
 della fattispecie siano indeterminati, cosi'  da  rendere  incerti  i
 confini  tra  lecito  ed  illecito,  ma  anche  quando  e'  la stessa
 fattispecie  al  suo  interno  a  risultare  indeterminata,   perche'
 espressiva  di  contenuti  eterogenei,  rispetto  al  bene  giuridico
 protetto e/o alle finalita' di tutela. Del  resto  si  tratta  di  un
 passaggio  che  la Corte costituzionale ha gia' adombrato nel momento
 in cui ha  dichiarato  l'incostituzionalita'  dell'art.    708  c.p.,
 riscontrando  un  deficit  di  tassativita'  non  in  via assoluta ma
 perche' strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato
 rispetto alle finalita' di tutela, anche  in  relazione  alle  mutate
 condizioni   sociali,  e,  in  quanto  tale,  irragionevole  a  norma
 dell'art.  3 Costituzione (sentenza 17  ottobre-2  novembre  1996  n.
 370).    Ne'  il  vizio  e'  sanabile  in via interpretativa, perche'
 l'adeguamento della fattispecie  alla  Costituzione,  utilizzando  il
 criterio teleologico, incontra, come gia' si e' visto, precisi limiti
 e   si  deve  pertanto  arrestare  allo  stadio  in  cui  la  formula
 legislativa si mostri impermeabile al mutamento di prospettiva  della
 tutela. Infatti il compito di una selezione delle condotte meritevoli
 della maggiore, rispetto al reato di ingiuria, tutela di cui all'art.
 341  c.p., nella misura in cui impone la scelta su diverse opzioni di
 politica criminale, spetta necessariamente al  legislatore,  restando
 precluso   all'interprete,  perche',  altrimenti,  si  finirebbe  col
 legittimare  ed  imporre  quella  "supplenza   dei   giudici"   tanto
 stigmatizzata, e a ragione, da piu' parti, con conseguente violazione
 della riserva di legge in materia penale.
   Da  questo  punto di vista la "delimitazione" della fattispecie che
 si puo' ottenere in via interpretativa e' molto  modesta  e  comunque
 tale  da  non spostare in modo apprezzabile i termini della questione
 di legittimita' costituzionale. Ai  passi  gia'  compiuti  in  questa
 direzione  dalla  giurisprudenza  (con il progressivo abbandono della
 tesi del dolo in re ipsa e della tesi che  equipara  esercizio  delle
 funzioni  con  l'essere il pubblico ufficiale "in servizio"), si puo'
 forse  aggiungere  la  valorizzazione  dell'elemento  della  presenza
 finalizzata  alla  necessita',  ai  fini dell'integrazione del reato,
 dell'effettiva percezione dell'offesa da parte del pubblico ufficiale
 ed una maggiore estensione delle  cause  di  giustificazione,  e,  in
 particolare,   della  reazione  legittima  agli  arbitrari  del  p.u.
 D'altra parte  va  ricordato  che  il  principio  di  determinatezza,
 analogamente  al  divieto  di  analogia in malam partem, si pone come
 garanzia a salvaguardia degli eccessi del potere  giudiziario,  e  la
 sua  violazione  comporta  tipicamente  la  necessita'  di operazioni
 interpretative dirette a meglio  delimitare  il  contenuto  normativo
 della   disposizione   senza  che  pero'  siano  offerte  sufficienti
 indicazioni da parte del segno linguistico (circolare Presidenza  del
 Consiglio dei Ministri cit., 19), scadendo in un'opera interpretativa
 necessariamente  intuitiva,  variabile  da interprete ad interprete a
 seconda  della  sensibilita'  e  delle  inclinazioni  ideologiche  di
 ciascuno.
   Neppure e' possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata al
 giudice  in  sede  di  applicazione  della  pena  tra il minimo ed il
 massimo a norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe'  che  spetta  al
 giudice  individuare  i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il solo
 bene dell'onore del singolo p.u., da punire col  minimo  della  pena,
 differenziandoli  dai  casi  piu'  gravi, perche' offensivi anche del
 bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli di una
 pena piu' severa, magari sottolineando che e' proprio l'ampia forbice
 editale  conseguente  alla  sentenza  n.  341/1994  che  consente  di
 ricondurre  in uno stesso modello di genere una pluralita' di sotto -
 fattispecie diverse per struttura e  disvalore.  In  particolare  non
 potrebbe  essere  a tal fine citato come precedente la sentenza della
 Corte costituzionale 23 maggio-18 giugno 1991 n. 285 per  almeno  tre
 ragioni.   In  primo  luogo  in  quella  occasione  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  era  stata  sollevata   con   esclusivo
 riferimento  all'art.    3,  della  Costituzione,  sotto  il  profilo
 dell'ingiustificata   parificazione   di   trattamento   di   ipotesi
 diversificate,  mentre  in  questi  casi  assume  preminente  rilievo
 piuttosto l'art. 25, secondo comma, Costituzione.   In secondo  luogo
 in  quel  caso  la normativa ordinaria denunziata poteva avvalersi di
 una attenuante ad effetto speciale (art. 5 legge 2  ottobre  1967  n.
 895)  che  consente  una  riduzione  della  pena  sino  a  due terzi,
 permettendo  di  differenziare  le  diverse  ipotesi   e   la   Corte
 costituzionale,  nel  respingere  la  questione,  ha sottolineato con
 forza l'importanza di questo  elemento.  In  terzo  luogo  in  quella
 occasione  mancava una fattispecie che potesse assumersi come termine
 di paragone, mentre in questa sede non puo' sfuggire che la  medesima
 strada  interpretativa  diviene impraticabile proprio per la naturale
 vocazione dell'art.  594 c.p. a porsi come tertium paragonis. Infatti
 una volta ammesso che i "casi lievi" in nulla  si  distinguono  dalle
 ipotesi  punite a norma dell'art. 594 c.p. (e art. 61 n. 10 c.p.) non
 sembra possibile giustificare razionalmente una  diversa  disciplina.
 Insomma  la  disomogeneita'  e' gia' a livello astratto e ad essa non
 puo' porsi rimedio mediante le valutazioni che, sul  piano  concreto,
 il  giudice  deve  compiere  ai fini della determinazione in concreto
 della pena, perche' e' lo stesso trattamento punitivo minimo  di  cui
 all'art.  341  c.p.,  a  risultare sproporzionato e, in confronto con
 l'art. 594 c.p., irragionevole per la mancata previsione  della  pena
 pecuniaria  (e  dell'intera  disciplina  propria  dell'art. 594 c.p.,
 compresa la procedibilita').
   D'altra parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge di
 cui all'art. 25, secondo comma della Costituzione si riferisce  anche
 alla  pena  e  deve  pertanto  ritenersi  violata dalla previsione di
 fattispecie "ad amplissimo spettro" con forbici edittali tanto  ampie
 da far scivolare la discrezionalita' del giudice nella determinazione
 della  pena  nell'arbitrio  punitivo.  Anche  in  tal caso infatti si
 affida - si potrebbe dire sulla base di una sorta di delega in bianco
 nelle scelte punitive - al giudice l'individuazione, gia'  a  livello
 astratto,  della  gravita' del fatto, smarrendo la "significativita'"
 del  tipo  e  la  funzione  di  guida  della  norma  penale,  nonche'
 confondendo  il  piano  della quantificazione del disvalore del fatto
 sulla base di ragionevoli scelte di valore, riservato al legislatore,
 col piano della commisurazione della pena, in relazione alle infinite
 variabili del caso concreto, di pertinenza  del  giudice.  La  stessa
 Corte  costituzionale, nella sentenza sopra citata, non ha mancato di
 ribadire che l'individuazione del disvalore  oggettivo  dei  fatti  -
 reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensivita', spetta
 al   legislatore;   mentre   al   giudice   compete  di  valutare  le
 particolarita'  del  caso  singolo  onde  individualizzare  la  pena,
 stabilendo  in base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali,
 quella adeguata in concreto. Poiche' gli ambiti delle due  sfere  non
 vanno confusi, e' compito del legislatore di rispettare quel rapporto
 attraverso  un'adeguata  articolazione  dei trattamenti sanzionatori.
 Non solo ma  la  stessa  Corte  costituzionale  non  ha  esitato  dal
 dichiarare  incostituzionale  una  norma  incriminatrice,  sulla base
 degli stessi rilievi, in presenza di un divario eccessivo tra  minimo
 e massimo di pena (da due a 24 anni di reclusione, con un rapporto di
 1 a 12), di una questione sollevata in relazione all'art. 25, secondo
 comma  della  Costituzione e di una diversa norma incriminatrice piu'
 generale alla quale  le  condotte  previste  dalla  norma  dichiarata
 incostituzionale  potessero essere ricondotte, funzione che, nel caso
 di specie, e' svolta agevolmente dall'art. 594 c.p.  (sentenza  15-24
 giungo  1992,  n. 299).   Da questo punto di vista e' la stessa ampia
 forbice editale prevista dall'art. 341 c.p., a seguito della sentenza
 n. 341/1994, che va da 15 giorni a  2  anni  di  reclusione  (con  un
 rapporto  da  1  a  48) a destare serie perplessita' sotto il profilo
 della legittimita' costituzionale della  norma,  anche  se  non  puo'
 condividersi  l'autorevole  critica  alla sentenza n. 341/1994 che e'
 argomentata  sulla  base  di  questo   elemento.   Infatti   non   va
 dimenticato,  da  un lato, che quella forbice tanto ampia e' una mera
 conseguenza tecnica, fondata sull'art. 23 c.p., di una  pronuncia  di
 incostituzionalita'  che  ha  posto  rimedio  ad  un vizio assai piu'
 grave, non costituendo pertanto il risultato di  un'autentica  scelta
 politico-criminale,  interdetta anche alla Corte costituzionale (art.
 28 legge costituzionale 11 marzo 1953, n.  87),  bensi'  dell'inerzia
 del  legislatore,  dall'altro  ch'essa  non  e' che la seconda faccia
 della medaglia, mentre la prima e'  costituita  dalla  struttura  del
 reato.  Con  cio'  si  vuol dire che e' del tutto naturale che ad una
 fattispecie  "ad  amplissimo spettro" corrisponda un divario tra pena
 minima e massima assai ampio, proprio perche' diverse  ed  eterogenee
 sono le condotte ad essa riconducibili. Ma la conclusione e' che cio'
 dovrebbe    consigliare   di   ritenere   incostituzionale   l'intera
 disciplina, piuttosto che ad escludere interventi,  pur  possibili  e
 talvolta  imposti  dai  limiti  entro  i  quali  viene  sollevata  la
 questione   di    legittimita'    costituzionale,    limitati    alla
 quantificazione della pena.
   11.  -  Ultimo  profilo  di illegittimita' costituzionale dell'art.
 341 c.p., nel suo complesso, che va evidenziato e' il  principio  del
 buon  andamento della p.a. di cui all'art. 97 della Costituzione, che
 potrebbe apparire paradossale se si pensa che il  medesimo  principio
 e'  generalmente individuato come il fine dell'incriminazione, se non
 addirittura come il bene giuridico protetto. Tuttavia  a  ben  vedere
 cio'  non  deve  sorprendere  perche'  i  fini  di politica criminale
 impongono l'adozione di  strumenti  congruenti  con  essi  e  non  di
 strumenti  assolutamente  sproporzionati  e  sovrabbondanti,  come si
 mostra l'art. 341 c.p., perche' altrimenti lo  strumento  predisposto
 rischia  di  tradursi  in un elemento controproducente. Del resto non
 costituisce   una   novita'   l'effetto   criminogeno   delle    pene
 sproporzionate,  che  innescano  meccanismi  di rivolta in coloro che
 subiscono la punizione e di solidarieta' tra i consociati, in  palese
 contrasto  con  la  funzione  preventiva  della  pena,  sia sul piano
 speciale che generale.  Ora, la prassi mostra  come  l'incriminazione
 indiscriminata  delle  condotte  descritte  dall'art.  341  c.p.  non
 risulti il piu' delle volte per nulla funzionale all'efficienza delle
 stesse amministrazioni  di  appartenenza  del  singolo  p.u.  offeso,
 obbligato  a  denunziare  il  fatto  a  norma  dell'art. 361 c.p., ad
 assentarsi dal suo ufficio per presentarsi  a  rendere  testimonianza
 anche  a  distanza  di  anni,  magari  affrontando  viaggi notevoli a
 seguito  di  trasferimenti  successivi  al  fatto,  con   correlativo
 dispiegamento  di  tutta  un'attivita'  burocratica, prima ancora che
 giudiziaria, del tutto sproporzionata alla scarsissima rilevanza  del
 disvalore  sociale (sotto il profilo dell'interesse pubblicistico del
 prestigio o del buon andamento della p.a.)  riscontrabile  in  simili
 fatti,  con  un  bilancio,  in  termini  di  analisi  costi/benefici,
 gravemente deficitario anche dal punto di vista  della  p.a.  stessa.
 Non  solo,  ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita' di
 reazione da parte dei p.u., imposta per legge, avverso  comportamenti
 certo  disdicevoli  ed  anche  penalmente  illeciti, sotto il profilo
 dell'offesa all'onore del singolo p.u. in  quanto  uomo,  ma  che  la
 coscienza  sociale stenta del tutto a riconoscere come qualificati da
 una quota aggiuntiva di disvalore, finisce  proprio  con  l'inficiare
 quella  "fiducia" dei consociati nella p.a. che, come si e' visto, e'
 essenziale per  un  corretto  svolgimento  delle  funzioni  pubbliche
 secondo  il  modello  di p.a. accolto dalla Costituzione, finendo per
 porsi come fattore di  "estraneita'"  e  di  "distanza"  tra  p.a.  e
 cittadino.   Un discorso simile puo' essere svolto anche dal punto di
 vista   dell'interesse   dell'amministrazione   giudiziaria,   spesso
 impegnata  a  combattere  con  la  prescrizione di reati di ben altra
 gravita', a non impegnare risorse assolutamente eccessive  per  fatti
 obiettivamente   bagattellari,   come   lo  stesso  processo  odierno
 testimonia esaurientemente.
   12.  -  Venendo  ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali"
 essi attengono alla mancata previsione, almeno per i casi  di  minore
 gravita',  della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva,
 e dalla procedibilita' a querela di parte.
   Quanto alla mancata previsione  della  pena  pecuniaria,  viene  in
 considerazione,  oltre  al  principio di uguaglianza sotto il profilo
 del criterio di ragionevolezza ed in generale tutte  le  norme  ed  i
 principi  costituzionali  sopra evidenziati, soprattutto il principio
 di proporzione di cui all'art. 27, terzo comma,  della  Costituzione,
 nella  sua  versione  che  si potrebbe definire "classica" ossia come
 criterio di congruenza tra tipo e quantita' di pena  e  gravita'  del
 fatto  tipico.  Nel  caso  di  specie  va  osservato  che  la mancata
 previsione  della  pena  pecuniaria  comporta   l'impossibilita'   di
 adeguare  il  trattamento  sanzionatorio  all'effettivo disvalore del
 fatto in concreto commesso.   E  l'illegittimita'  costituzionale  di
 questa  soluzione,  almeno per i "casi piu' lievi", emerge ancora una
 volta dal raffronto col reato  di  ingiuria,  sotto  il  profilo  del
 criterio  di  ragionevolezza  di  cui  all'art. 3 della Costituzione.
 D'altra parte se un simile raffronto, giustificato, come si e' visto,
 dal fatto che in  questi  casi  entrambe  le  fattispecie  tendono  a
 tutelare  il  medesimo bene giuridico, senza apprezzabili differenze,
 porta a considerare irragionevole una  pena  detentiva  superiore  di
 dodici  volte  nel  limite  minimo  (sentenza  n.   314/1994 cit.), a
 fortiori si puo'  ritenere  incostituzionale  la  mancata  previsione
 della  pena  pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva, prevista
 invece dall'art. 594 c.p. Non si  deve  infatti  dimenticare  che  la
 previsione della sola pena detentiva va limitata alle sole ipotesi in
 cui   la  gravita'  dell'illecito  sia  particolarmente  elevata,  ed
 assolutamente indispensabile il ricorso alla  detenzione,  mentre  le
 sperequazioni punitive tra ipotesi di reato comparabili, per relativa
 omogeneita'  di  contenuto  offensivo,  in ordine alla qualita' prima
 ancora che alla quantificazione della pena, finiscono con  l'incidere
 negativamente   sulla   funzione  di  prevenzione  generale,  perche'
 denunciano casualita' ed eccentricita' dell'incriminazione (circolare
 Presidenza del Consiglio dei Ministri, cit., 16, 6.2). Si e' peraltro
 gia' osservato che la previsione di una pena pecuniaria  modifica  il
 giudizio  sulla proporzione della pena, in termini generali, rispetto
 alla gravita' del  fatto  -  reato,  venendo  ad  incidere  sul  bene
 fondamentale  della  liberta'  personale (art. 13 della Costituzione)
 solo in via eventuale ed in minor misura (attraverso la  sostituzione
 in  liberta'  controllata  o lavoro sostitutivo).  Infine il problema
 dell'individuazione  dei  limiti  edittali  della  pena   pecuniaria,
 conseguenti  ad  un'eventuale  dichiarazione  di  incostituzionalita'
 della norma, limitata  a  questo  aspetto,  puo'  agevolmente  essere
 risolto  mediante il riferimento o ai limiti generali di cui all'art.
 24 c.p.  oppure ai limiti previsti dall'art. 594 c.p., ossia previsti
 per il reato assunto come tertium paragonis, secondo una tecnica  non
 nuova  e  seguita dalla stessa Corte costituzionale in un caso in cui
 l'omogeneita' strutturale tra le due fattispecie  poste  a  confronto
 era certamente minore (sentenza n. 409/1989 cit.).
   13.  -  In  ordine  alla  procedibilita', non nuovo e' il dubbio di
 legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., sotto il  profilo  di
 una  disparita'  di  trattamento,  questa volta ai danni dei pubblici
 ufficiali, in quanto  discriminati,  rispetto  ai  comuni  cittadini,
 perche'  privati  del potere di proporre, come anche di non proporre,
 nonche'  di rimettere, la querela a tutela della propria onorabilita'
 (cfr. pret. Prato 15 gennaio 1975  in  Giur.  Cost.  1975,  1732,  la
 relativa  questione,  sollevata  con esclusivo riferimento all'art. 3
 della Costituzione, e' stata respinta dalla  sentenza    2-14  aprile
 1980, n. 51).
   In  questa  sede  la  questione  deve  essere  riproposta, anche in
 riferimento all'art. 97 della Costituzione e,  soprattutto,  all'art.
 25  secondo  comma, della Costituzione sia sulla base di tutto quanto
 gia' si e' detto in ordine all'obiettivita' giuridica del reato,  sia
 cercando  di  svelare  i  nessi  tra  funzione della procedibilita' a
 querela e natura del bene protetto dall'art. 594  c.p.,  in  rapporto
 col principio di determinatezza.
   Sotto   il  primo  profilo  bastera'  ricordare  come  l'originaria
 configurazione del reato concepisse la tutela dell'onore del  singolo
 p.u.  come  semplice  "mezzo"  per  perseguire  un fine di piu' ampia
 portata, ossia il principio di autorita', sicche' veniva imposta  una
 correlazione necessaria tra lesione del bene personale dell'onore del
 singolo   p.u.   e  dimensione  pubblicistica  dell'offesa,  con  una
 soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore che vi era
 sottesa, di una certa coerenza, perche' innegabile e'  la  congruenza
 con  quel  fine dello strumento apprestato. Ma, come si e' visto, una
 simile  congruenza  inevitabilmente  svanisce  una  volta  mutata  la
 prospettiva   di  tutela  mediante  l'adozione  delle  finalita'  del
 prestigio o del  buon  andamento  della  p.a.,  in  luogo  di  quella
 originaria,  come  imposto dalle scelte di valore fatte proprie dalla
 Costituzione, perche' a questo punto e' la  stessa  estensione  della
 fattispecie  a  non trovare piu' valida giustificazione, tanto da far
 apparire lo strumento di  cui  all'art.  341  c.p.  come  palesemente
 incongruo rispetto a quei fini, anche in riferimento al nuovo modello
 di  p.a.  delineato dalla Costituzione.  Si tratta di una conclusione
 che puo' trovare conferma dai rilievi  che  seguono,  attinenti  alla
 procedibilita'.  Infatti  si  deve osservare che il significato della
 procedibilita' della querela per i reati di ingiuria  e  diffamazione
 (art.  597  c.p.)  va ricercato nell'individualita', si potrebbe dire
 "intimita'" del bene giuridico  protetto  dell'onore,  quale  diritto
 della  personalita'  di ciascun uomo in quanto tale, in se' e per se'
 considerato, e  nell'obiettiva  scarsa  gravita'  che  spesso  queste
 condotte,  sotto  il  profilo dell'interesse statuale al mantenimento
 dell'ordine sociale, assumono. Con cio' si vuol dire che si tratta di
 condotte  che  tipicamente  si  originano  nell'ambito  di  conflitti
 inter-personali,  coinvolgenti  una  dimensione  prima  di tutto, per
 cosi'  dire,  "privatistica",  che   spesso   trovano   un   adeguato
 componimento nel medesimo rapporto, mediante ad es., presentazione di
 scuse  o  risarcimento dei danni, sicche' appare oltre modo opportuno
 limitare l'intervento punitivo dello Stato al caso  di  presentazione
 di  querela  anche  al fine, mediante l'istituto della remissione, di
 favorire componimenti in  via  bonaria.  Inoltre  la  funzione  della
 querela,  in  stretta correlazione con il principio di determinatezza
 di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, consiste anche
 nel selezionare le condotte realmente offensive, in modo da  arginare
 il   rischio  che  l'azione  penale  sia  promossa  in  relazione  ad
 un'infinita' di  fatti  bagattellari,  con  evidente  pregiudizio  di
 un'efficiente amministrazione della giustizia.
   Ebbene nel caso dell'oltraggio a p.u., attraverso la procedibilita'
 d'ufficio,  si  viene  a  realizzare  una  sorta di "sacrificio" o di
 "strumentalizzazione", di un bene specificatamente  personale,  quale
 l'onore  del  singolo  p.u.,  in  funzione  del  perseguimento di una
 finalita'  pubblicistica  trascendente  l'interesse   della   persona
 fisica,  che  tuttavia  si  risolve  alternativamente o in una scelta
 credibile  ma  di  per  se'  manifestamente  in  contrasto   con   la
 Costituzione  (principio  di  autorita'), ovvero in una scelta di per
 se' conforme alla Costituzione (buon andamento della  p.a.),  ma  che
 non  trova  alcun  riscontro  nella  struttura  del reato, essendo il
 collegamento con la pubblica funzione  tanto  generico  da  risultare
 evanescente.   Vi   e'  allora  da  chiedersi  se  sia  razionalmente
 giustificabile il sacrificio imposto ai p.u., privati del  potere  di
 tutelare  autonomamente  un  bene  della  loro  personalita'  ed anzi
 gravati  dell'obbligo  di  presentare   denunzia,   da   una   tutela
 "pubblicistica",  priva  in realta' di concreti elementi di riscontro
 normativo. O non  sia  piuttosto  preferibile,  e  costituzionalmente
 imposto,  selezionare, dal punto di vista tipologico, quelle condotte
 la cui punizione sia effettivamente  funzionale  alle  finalita'  del
 prestigio  e/o  del  buon andamento della p.a. e lasciare alla libera
 decisione del singolo p.u.  la  tutela  dei  beni  propri  della  sua
 personalita',  mediante  l'esercizio  del potere di proporre querela,
 nei casi in cui ad essere offesi sono esclusivamente quei beni, senza
 alcuna possibilita' di coinvolgimento di quelle finalita'.  L'attuale
 disciplina, come e' evidente,  incide  anche  pesantemente  sul  buon
 andamento  della  p.a. in generale e dell'amministrazione giudiziaria
 in particolare, imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u.
 e, dall'altro l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale  (art.  112
 della   Costituzione)   in  ordine  a  tutti  i  casi,  anche  quelli
 obiettivamente bagattellari ed in cui il  p.u.  non  si  sia  sentito
 offeso  (e  non avrebbe pertanto presentato querela) o abbia ricevuto
 tutte le scuse del caso (e avrebbe pertanto  presumibilmente  rimesso
 la querela).
   14.  -  Dimostrata  la  non  manifesta  infondatezza  di  tutte  le
 questioni di legittimita'  costituzionali  sopra  indicate,  la  loro
 rilevanza  nel  presente  processo  emerge in tutta evidenza, perche'
 l'accoglimento di una sola delle questioni medesime comporterebbe, in
 luogo di un'ipotetica sentenza di condanna a pena detentiva, senza la
 possibilita' di concedere i benefici della  sospensione  condizionale
 della  pena  o  della  sostituzione  in  pena pecuniaria, per via dei
 precedenti  dell'imputato,  a  seconda  dei  casi,  una  sentenza  di
 condanna  ad  una  pena  eventualmente  solo  pecuniaria  oppure  una
 sentenza di non doversi procedere (art.  529  c.p.p.),  per  mancanza
 della   condizione   di   procedibilita'   della   querela,   previa,
 eventualmente, una diversa qualificazione dei  fatti  contestati  (la
 dichiarazione   di  incostituzionalita'  dell'intero  art.  341  c.p.
 comporterebbe  infatti  la  riconduzione  all'art.  594  c.p.   delle
 condotte da esso punite).